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Melchiorra

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L’ho vista per caso. Andava a piedi, come al solito, per la lunga e stretta via che da casa sua arrivava all’incrocio con la strada maestra, la provinciale per andare in città.

Era alta, dinoccolata, contenta  e sicura di sé. Teneva stretto  un involto sotto il braccio, un sacchetto di plastica che stringeva come un tesoro. La chiamai, si girò, mi vide e spalancò un sorriso tutto gengive in quella faccia lunga e piatta che non riusciva a farla passare mai inosservata.

Il nome che suo padre  aveva voluto darle non le era mai piaciuto perché a scuola i suoi compagni delle elementari la prendevano sempre in giro e lo storpiavano in mille modi. Melchiora, Melchè, Orina, Melchiana e qualcuno, più grandicello, azzardava un improbabile Baldassarra per analogia di ruolo. Così, quando ebbe compiuto i dieci anni, si intestardì con suo padre che era stato sempre orgoglioso di quel nome appartenuto a sua madre, e disse che, se avesse continuato  chiamarla così, non avrebbe mai, mai più dato risposta.

Si concordò allora un più spiccio Rina, che, oltre ad ingentilire i tratti del nome, permetteva un’emissione minore di fiato e, forse, una risposta più immediata ai richiami perentori di tutta la famiglia.

In casa la chiamavano molto spesso per disbrigare faccende, per lavare i panni sporchi , i càmici unti del padre che arrivava lercio di grasso dall’officina, per spazzare il marciapiede sotto casa sempre pieno di immondizie, per stirare montagne di roba gualcita  accartocciata e resa spessa dalla lunga esposizione al sole di luglio, per andare a comparare il pane e il latte.

E lei si era persuasa che la sua presenza fosse indispensabile in famiglia e che tutti suoi fratelli e sorelle, suo padre e sua madre, dovessero sempre dipendere da lei, dalla sua sveltezza nel fare le faccende di casa, dalla sua vocazione alla pulizia. Senza di lei nessuno in quella casa avrebbe potuto più vivere. E in questa convinzione era cresciuta, alta, allampanata, magrissima e faconda. Non si lamentava mai, parlava con tutti  di buon grado, intessendo racconti sui fatti del giorno, ingigantendo particolari e dando corpo a minimi indizi di insignificanti discrepanze nei comportamenti altrui.

Volevo fare una conversazione con lei. Mi si avvicinò  quindi con quel sorriso stampato in faccia e con la disponibilità a narrare di sé.

-Dove vai? dissi io facendole segno con la mano che si avvicinasse.

-Sto facendo una passeggiata, vado a buttare questo sacchetto di immondizia-, mi disse mostrandomi l’involto.

-Che passeggiata? Sotto questo sole? Per buttare la spazzatura?- dissi aggrottando le sopracciglia.

-Certo. Così ho una scusa-, rispose con il suo solito sorriso tutto gengive.

-Mah, ci vuole una scusa per andare a fare una passeggiata?- , dissi io.

-Per me sì. Non sono abituata ad uscire per niente-, mi rispose.

-Come per niente, Rina!- dissi io, -una si fa una passeggiata e basta. Esce per questo.

-Eh, no, mia cara! Non è così semplice. Per te forse è così ma non per me- mi disse con fare perentorio accompagnando le parole dondolando  il dito indice della mano destra.

-Ma perché per te no?- dissi io in attesa di spiegazioni.

-Da quando sono rimasta vedova, nessuno deve poter dire che esco per niente, ne va della mia reputazione!-

Lo stato di vedovanza la esponeva a dicerie malevoli sul suo conto, pensava.

-Dai, vieni un po’ qui, raccontami- dissi io- è tanto che      non  ci si vede-.

-Eh, sì, disse lei. -Vedi adesso porto il lutto per mia madre. Tu lo sai che è morta?-

-Morta?

-Sì, sei mesi fa è morta. Era in una casa di riposo. Mia sorella ha voluto portarla lì. Sai io non avrei voluto, l’avrei tenuta con me , sarei andata a stare con lei nella sua casa, l’avrei accudita e rispettata meglio che in quell’orribile posto. Ma non hanno voluto.

-Come non hanno voluto? Chi non ha voluto?- chiesi io in apprensione.

-Le mie sorelle non hanno voluto. Non volevano che io potessi spendere i soldi della sua pensione.

-Che cosa orribile. Ma perché?

-Lo sai che mi odiano, specie Angela. Lei proprio mi   ha sempre ostacolato. Da quando poi sono diventata vedova non me ne ha fatta passare una-.

-Ma proprio perché sei vedova dovrebbe aiutarti. Tuo marito ti ha lasciato qualcosa di cui vivere?

-No, solo la pensione di reversibilità prendo, ma è una cosa da ridere. E poi i miei figliastri…mi hanno quasi cacciato di casa. Mi hanno fatto la guerra. Il maggiore mi ha costretto a cedergli la parte superiore della casa, il più piccolo ha preteso di stare con me nell’altra metà.

-Bene- dissi io- così non sei rimasta proprio da sola?

-Ma cosa dici! Non sai che inferno è  stata la mia vita. Peggio di prima-, dice agitando in aria la mano.

-Perché prima com’era?- faccio io  con meraviglia.

-Lo sai che non ho avuto figli miei, lui non ne voleva, mi picchiava sempre e i suoi figli si approfittavano di me, non mi volevano bene e si lamentavano col padre per ogni sciocchezza- rispose.

-E adesso però continui a stare in quella casa?- dissi io

-Chiamala casa, disse lei, non c’è più nulla che la ricordi. Quando mi sono sposata avevo con me un bellissimo corredo, la trapunta di raso, le lenzuola ricamate, le tende di pizzo. Tutto, tutto  ho dovuto togliere. Mi hanno fatto cedere tutto il primo piano della casa, che è andata al figlio grande.

-E tu adesso dove stai?- dissi io sempre più incuriosita.

-Sto al pianterreno insieme al figlio piccolo. Ma sai com’è, quando non è fuori per lavoro, non esce mai di casa e occupa tutto lo spazio. Poi non posso neanche uscire a fare la spesa.

-Neanche la spesa?- chiesi io.

-Neanche la spesa. Compro sempre lo stretto necessario per un giorno, al massimo due. Ma mi tocca fare la veglia di notte.

-La veglia di notte?-

-Sì, dormo nella sedia sdraio davanti al frigorifero, perché altrimenti lui tutto si mangia!-

-Si mangia tutto quello che tu compri?-

-Sì, tutto.

-E tu come fai dopo?

-Te l’ho detto, dormo davanti al frigorifero. Solo così lui non può aprire lo sportello e io riesco a mangiare qualcosa anche l’indomani, rispose con aria furba.

-Ma non esci mai da casa?

-Praticamente vado solo a comprare da mangiare  e a buttare le immondizie. Per il resto sto in casa.

-Ma neanche  quando lui è fuori, esci?

-No, ho paura che ritorni, che non mi trovi e ne approfitti per mangiare tutto quello che trova.

-Ho capito Rina. Hai qualche amica?

-No, anzi, sì, una signora che abita qui vicino. Vado a messa con lei e poi alle riunioni della chiesa. Devo tanto a lei.  Tramite lei ho conosciuto le altre donne  del gruppo di preghiera che mi hanno accolta- rispose con un largo sorriso che scopriva completamente le gengive.

-E ti vogliono bene?- aggiunsi io con curiosità.

-Sì, ma io non rimango mai indietro, sai. Vado a fare tutte le pulizie a casa loro. Le aiuto e mi dicono brava, sai, sono sempre stata brava a pulire la casa. E loro hanno fiducia in me. Mi lasciano sempre la chiave di casa a disposizione e io pulisco tutto, così quando arrivano possiamo andare in chiesa a pregare. Pensa che bello, in quei giorni non devo neppure farmi la spesa, perché mangio a casa loro.

Sono tanto buone queste signore.

 

 

 

 

 

 Rosa Maria Melchionda - 01/03/2015 21:38:00 [ leggi altri commenti di Rosa Maria Melchionda » ]

La lettura di questo racconto mi ha fatta riflettere una volta di più sulla condizione delle donne,degli anziani,sulla perfidia di alcuni figli ... Bello e coinvolgente nello scoprire attravrso il dialogo le vicissitudini della protagonista. Un saluto.

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