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al testo di Amina Narimi
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La spinta che diffonde quando è ora è tutta qui se nel farsi preghiera muove l'aria col goccio di saliva trattenuto dal sogno di stanotte- sino a rendere pesanti i nostri occhi come frutti-
maternità tra l'intimo dell'acqua e la coppa che raccoglie la sua origine- le terre emerse è Noi. Mio sposo
...la mia Jebel. ti mostro, mentre scende nella yurta ti racconto della casa fatta come il ventre di una madre con un corpo nomade che viaggia sulla schiena errante senza chiodi solo Geni che si baciano a raggiera e una finestra in cielo pitturata, una corona e come gioco il giragira: consonante-vocale consonante- “Fammi frusciante il Tamashek ! il verso nasale dei Tuareg, con l'ewè, la lingua dei bambara, eppoi lo schiocco” ridiamo come stessimo pregando!-
Ti celebro così dentro i paesaggi come in fondo al vuoto del mio letto nell’esatta simbiosi della gioia madre dalla lunga voce- fango che dorme nella luce con tutto il silenzio fuori dal torace della carne, allo scoperto. Amo.
Ciò che nasce non è altro da questo uccello azzurro nei polmoni con il dorso carico di latte “Cosa vedono i tuoi occhi, Aman, quando vai a fare i fiori.. la porta stretta di una retina dove s'inginocchia il cielo è quel prodigio fedele all’invisibile nel rosso della gola fino a sera-
una piaga battuta dal mattino nell’urlo che viene, la gemma che cerca la lingua in un punto, il suo latte, solo quello può essere: una parola che ride- che viene a morire nel gesto per disegnare un respiro riportando il campo di una lacrima nella radura da cui riparte il filo che appena visibile cammina sul buco di dolcezza della yurta
si espande e si contrae, ti assorbe lo spiraglio che moltiplica l’amore nel continuo movimento di un miracolo librandosi nel cielo come un figlio, a comporre la sua voce. Va alla gioia.
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