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Il rito delle fughe

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IL RITO DELLE FUGHE

Poi dalla congiura degli opposti
guarì il poeta.
Vide - senza fremito -
avanzare nello specchio del tempo
il passo ancora lieve.
Ma l’occhio tradiva il languore.
Con dignità
- malgrado le ferite -
fissava l’istante da attraversare.
Prive di senso le ragioni
ma realizzò la morte nel supplizio
del respiro
che più non sapeva d’infinito.



Non trasalire - mia estranea -
Non diversa è la spina del canto.
Ciò che pensi da tempo in me si versa.
Strali sono le parole
ed hanno la mia inermità
ferito a morte.


Irreprensibile è la consuetudine
- ecco il giorno mi divora -
Non ancora è tempo: dormono le viole
con le piccole bocche ancora chiuse.
Non stringere troppo le ciglia
lascia un piccolo varco
se l’anima volesse un poco uscire.
Perché “Io me ne vado
come l’ombra quando s’allunga”.



Ospiti mai stanchi delle insonni attese
- prodighi di segreti tradimenti -
non mi portaste fra le braccia
oltre le soglie dei conviti.
Non diceste parole
che avrei gradito udire
né tratteneste a lungo la mano nel saluto.
Con tale indifferenza mi lasciaste andare.
Eppure vi aspetto
- non vi stupite -
Ancora.




Dove vuoi che vada?
Prima che ti dica “andiamo”
mi chiedi dove andrò.
Sulle torri regali attenderò la Musa.
Avrò monili e vesti
di nobile fattura.
A lei la mano già nel vuoto
pendula e amica.
A lei sola perdono le fughe immemori.
Unica - lei - erede del ritorno.



Se non fossi del tempo la ritrosa gemma
potrei nelle tue ubiquità
stabilire tragitti
moltiplicare mutamenti
che tanto inquietano il rito delle fughe.
Ma cosa insegui?
La tua smodata febbre vede più grande
il rischio d’assoluto.



Quale destinazione aveva il tuo sorriso
caduto in questo presagio di spavento.
Ho pregato
- non so se abbastanza -
perché potesse l’Eternità degnarsi
di volgere a me la sua pudica luce.
Tre volte ogni sera
ho contato le perle dei misteri.



Io non saprò per quali vie
mi giungerà la vostra voce
ma so dove l’aspetto.
Ogni impaurito palpito ne annuncia l’evento.



E venne
mentre i gigli dalle schiuse braccia
guardavano la pioggia risalire agli occhi.
Parole - mi disse - inadatte e scialbe.
Io sognavo follemente
che al vedermi sorgessero dai rovi
repentine rose.



Quale dispetto hai creduto di farmi?
Io di te mi rallegro.
Non guardarmi attraverso il tuo precario slancio.
Non è marginale la conquista.



Da quale parte stai?
Dovrei guardare dov’è sorta questa luna smisurata.
Ma non è questo che intendi.
Non il luogo
né la temporalità
danno il senso alla sfida.
Dunque l’altitudine sovrasta il volo
ed è indefinibile la vertigine.
Sto dov’è lecito chiedersi che sia
il viola mortifero
di un viso dopo il pianto.

 Giovanni Baldaccini - 17/07/2017 19:15:00 [ leggi altri commenti di Giovanni Baldaccini » ]

Trovo splendide le prime tre strofe, un dialogo serrato con un altro da sé testardo nella sua ricerca d’Eterno (consolazione?) ma non credo che quella sia una via di fuga per l’anima. Occorre riportare quell’anelito dove conviene, dove bisogna stare, nel declino del mondo e il suo sconforto. Questa, almeno, la mia lettura.
Un saluto.

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