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Delirio

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L’alba del nuovo giorno s’affaccia rosseggiante tra un ammasso di nuvole basse e foschie. Un cerchio opprimente stringe e martella alle tempie , grava sulle palpebre che mi sforzo di schiudere come lastre di piombo. Mi levo a sedere sulla sponda del letto, sudo freddo, improvvisa insorgente vertigine che oscura la percezione. Resto minuti necessari in attesa , aspettando di tornare alla vita, e confido nella meccanica di gambe che devono raggiungere il box doccia. Ricordo quell’altra volta che mi era capitato, febbricitante, e voglio evitare che si ripeta quell’esperienza che mi aveva lasciato privo di sensi sul pavimento maiolicato nel bagno di un ospedale militare a Genova Sturla. Questa volta, per fortuna, dura pochi secondi e accade il miracolo : lo scroscio del tiepido flusso, con merito, scaccia il malore e riesce ad innalzare il pensiero nel ricordo di antichi passi.
L’acqua dilava e ricaccia il dolore, è benefica e , se chiudi gli occhi, puoi ritrovarti in posti incantevoli di un paese anche sconosciuto dove inizi a parlare una nuova lingua e assumere nuova forma.
E’ una sorta di vissuto fuori dalla coscienza che gli esperti chiamano transfert virtuale.
Ripercorro il momento prima di morire, quando, preceduto da
un lampo di luce, m’illumina una visione, proiettandomi tra le pareti rocciose della maestosa catena montuosa delle Ande, colorata di verde e d’azzurro. Le cime aguzze s’innalzano fino a bucare il cielo dipinto di rosa paonazzo e tratti di carboncino che non m’incupiscono, manifestandosi nell’ immensità fino a farmi perdere e ad annegarci dentro . Sto ritto su un’altissima rupe .
Allargo le braccia parallele al terreno , croce latina nella folle idea di raggiungerlo. Vola lontano, eppure sembra così vicino da poterlo toccare allungando una mano, fino a fondersi alle stesse emozioni.
Sono il condor ad ali spiegate , nel volo d’aliante che gioca col vento a formare cerchi concentrici, disegni planati, figlio delle materne correnti ascensionali. Paludato nella nuova livrea pennuta , i miei occhi scrutano intorno ubriachi del lontano fascino del mondo che fu, in una lontananza mai vista così chiara e reale, fatta di pietre possenti, blocchi squadrati a sfidare il tempo, muri e stretti camminamenti di passi leggeri di un sommo sacerdote indiano e di una lunga fila di mille seguaci.
Adattato al capriccio dell’aria, come un aquilone che non può mai cadere perché sorretto da possenti ali, inizio il viaggio lanciandomi nel vuoto per ricostruire, con l’occhio della storia del popolo Inca, nella visione aerea da riprodurre come fotografia della mente. Trasvolando tra le rovine di una città perduta nei secoli.
l’ Io-condor, sempre più giù in picchiata, fino a lambire le limpide acque del Sacro Fiume, per risalire cabrando ad onorare il tempio del Dio Sole. Nuvole grigie e nere,
minacciose e cariche di pioggia che si libera dalla massa, dolcemente, lavando il simulacro degli antichi abitanti. Umidità a gocce tra le mie piume scende dal cielo e monta dal fiume, e , d’intorno , un panorama mozzafiato mutevole, tra luci e ombre , giochi d’acqua, fino a dipingere un arco di svariati colori che sorge dal fiume e muore sui monti.
Un battito d’ali sopra la valle mi scuote come una cascata d’acqua sul volto...
Apro gli occhi e sento sfuggire il miracolo da orifizi e cotenna, trovandomi al centro di fumante vapore. Allora mi avvolgo nell’accappatoio di spugna. Esco fuori in terrazza sentendo il calore del cotto sotto i piedi nudi . Disteso sull’inerte sedia a sdraio. Tra le mani il giornale d’ieri .
Lo sguardo curioso continua ad inoltrarsi frugando l’orizzonte lontano, diverso e reale.
Su dal cielo un fischio stridente. Alzo gli occhi a guardare e lo vedo lassù nel limpido cielo, nel solito volo che torna a concludere il cerchio, dalla valle dell’Urubamba fino alla mia Conca d’Oro, dal Condor delle Ande al Falco Pellegrino.

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