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Io so come hanno ucciso Pasolini

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Pino Pelosi ha pubblicato con Vertigo il suo secondo libro (ed ha il coraggio di ricordarcelo nei ringraziamenti, dopo le menzogne vergognose di “Io, angelo nero”, sua ‘opera prima’, benedetta, a suo tempo, da una Dacia Maraini credula per troppo amore verso Pier Paolo).
Il titolo è ammiccante per pochi ormai: “Io so... come hanno ucciso Pasolini”; quante volte, infatti, la “Rana” ha promesso verità e mantenuto fumo?
120 pagine circa, meno di 90 tolte note e notarelle nonché un dimenticabile album fotografico di Pelosi stesso; un’ora e mezza di lettura al massimo.
Opera che sarebbe, a prescindere, irrilevante, se non altro per le passate e ripetute bugie dell’autore, ma che, a sorpresa e inaspettatamente, merita considerazione.
Non per le rivelazioni sulla morte di Pier Paolo, ci mancherebbe, ché il Pelosi ci consegna semplicemente l’atroce scena (la più credibile, ahimè) già tratteggiata da Gianni Borgna e Carlo Lucarelli su Micromega n°6 del 2005, nonché suffragata dalle testimonianze raccolte da Silvio Parrello più recentemente.
L’agguato all’Idroscalo dove Pasolini si sarebbe recato con Pelosi per riavere le ‘pizze’ di “Salò”, il suo ultimo film, rubate dagli archivi di Cinecittà; la presenza sulla scena del ben premeditato delitto di altre due auto ed una moto; il massacro, prolungato, orribile, del poeta; il sormontamento del suo corpo, che ne causa il decesso per lo scoppio del cuore, non da parte della sua Alfa Gt ma di un’altra, identica; tanta gente che sente e vede nelle baracche di Ostia, ma nessuno che testimonierà (né verrà chiesto ad alcuno di farlo, a dire il vero). ‘Naturalmente’, Pelosi è vittima ed esca quanto mai inconsapevole del delitto. ‘Naturalmente’ dei mandanti nemmeno l’ombra.
‘Nihil novum sub sole’, apparentemente (anche se il racconto di Pelosi, unico testimone oculare ufficialmente accreditato, non dimentichiamolo, imporrebbe ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la riapertura del caso, la ricerca degli esecutori materiali e degli ispiratori del delitto).
Invece qualcosa c’è, ma non quello che promette Pelosi. Infatti, ripeto, inaspettatamente c’è qualcosa di commovente, di prezioso: la descrizione del rapporto precedente fra Pasolini e Pino che ammette finalmente di aver conosciuto il poeta circa quattro mesi prima della sua morte, all’inizio del luglio del 1975.
E’ qui che Pelosi appare autentico (e bravi sono anche i suoi due ‘ghost writers’). Ci viene presentato un Pasolini inedito o, quantomeno, molto poco conosciuto e con accenti di dolce quotidianità. E’ il Pier Paolo che passando presso la Stazione Tiburtina, accoglie in auto e consola il ragazzetto scappato da una casa dove i genitori litigano furiosamente; che gli offre la cena e dopo, sulle strade notturne di un Aventino deserto, gli permette addirittura di guidare il suo ‘macchinone’ sportivo; il Pasolini delle gite al mare, degli spaghetti alla ‘gricia’ offerti in un’osteria vicina agli studi di Cinecittà; quello ‘pedagogo’ di “Gennariello”, che cerca di spiegare ad un Pino quanto mai immaturo (e, probabilmente, davvero lo era, anche per il modo in cui si è fatto manipolare in occasione del delitto del poeta) la società italiana, gretta, volgare, omofoba. Un uomo che si sa ben difendere dalle offese di chi lo apostrofa come “frocio” e che non subisce il fascino dell’esser chiamato “professore” (sic!) e “ maestro” nei luoghi pubblici. Un Pasolini che non toglie mai gli occhiali da sole Persol “suo unico scudo”, ma che è ben disposto, a 53 anni, a farsi un tuffo in una ‘marana’ o a rubare, divertito, sacchetti di patatine fritte da un deposito mal custodito. Un Pasolini, infine, pronto, per gioco, a sfidare Pino a difendersi e che lo blocca con forza ed abilità finché questi non si dichiara sconfitto; la stessa forza e abilità di cui fa sfoggio in una partitella di calcio improvvisata nei giardini di villa Ada.
Sono pagine, queste, che stringono il cuore di chi ama e ha amato Pier Paolo Pasolini, perché lo riconosce verissimo e disperatamente vivo, perché è evidente che stava nascendo un’amicizia particolare fra lui ed il ragazzetto così simile al Riccetto, a Gennariello e a Ninetto, tutti e tre, diversamente, perduti, e che questa amicizia, che questa fiducia, probabilmente hanno reso tutto più facile ai suoi assassini, che hanno potuto contare su un’esca (consapevole o inconsapevole) di prim’ordine.
Qui è il valore del libricino, qui, a parere di chi scrive, la sua ‘importanza’.
Poi, Pelosi si lascia andare a considerazioni ‘dietrologiche’ fin troppo ardite per lui, cominciando dalla denuncia di connivenze di non meglio specificati “colletti bianchi”, continuando con maliziose insinuazioni su quelli che a Pasolini hanno legato la propria vita, fino a coinvolgere in un giudizio (abbozzato, ci mancherebbe) di correità quantomeno passiva, familiari di Pasolini, segnatamente Graziella Chiarcossi (i cui comportamenti, occorre dire, hanno più volte lasciato quantomeno confusi gli amanti di Pasolini), e carissimi amici come Ninetto Davoli.
Sempre indirettamente, ma stavolta neanche troppo, Pelosi fa capire che Sergio Citti avrebbe avuto un ruolo attivo nel furto delle pizze di “Salò” per pagare debiti legati al suo presunto consumo di droga e prostituzione e quindi, Pelosi non lo dice esplicitamente, anche nell’omicidio dell’amico se non altro per averne creato le premesse materiali.
Proprio quel Sergio Citti che, ancora una volta, prima di morire, ha voluto attirare l’attenzione di tutti sul fatto che quella delle pizze di “Salò” fosse la strada da seguire; proprio lui che, fino all’ultimo, si è battuto, suffragandola concretamente con prove filmate inoppugnabili, per la tesi dell’omicidio di gruppo…
Insomma, Pelosi mente e dice la verità, come ha fatto per tutta la vita, miscelando in misura diversa i due ingredienti: ma se “Io, angelo nero” era una sequela di palesi menzogne, qui, invece, si intravedono sprazzi di luce, almeno una parte di verità, anche su quello che successe quella sera. Ma, è necessario, però, domandarsi, per quanto ancora Pelosi continuerà a non dire tutto quello che sa (dopo la pubblicazione del libro, ha avuto l’ardire di ammettere che un 15% della verità lo tiene, tuttora, per sé)? E, ancora, è lecito che quest’uomo possa continuare a guadagnare sulla morte di Pasolini? E, in ultima analisi, è giusto comprare “Io so… come hanno ucciso Pasolini”?
Ognuno potrà dare per suo conto le proprie risposte.
A prescindere da tutto ciò, rimane il tratteggio di quel ritratto così straziante e autentico di Pier Paolo. Del Pier Paolo di tutti i giorni, uomo pensoso eppur lieto, austero e un po’ narciso, profondissimo e giocoso. Il ritratto di Pier Paolo vivo. Un ritratto dolorosamente dolce. Un ritratto insopportabilmente struggente.
E di qualcosa di così prezioso, a Pino Pelosi, questa volta, bisogna pur dare atto.

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