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al testo di Salvatore Solinas
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Nel lurido grigiore di un mattino d’inverno, Forse chiamato da un sogno, Col passo appesantito dai pensieri: Cupi presentimenti marinati Nelle spezie delle ore notturne, Discendo il viale dei Mille sotto i tigli Incrostati di gelo, Incurante dei suoni dei motori Del friggere dei freni Che graffiano l’aria Del mondo che mi ringhia attorno. Alla sosta dell’autobus rimango In paziente, solitaria attesa.
Rosso e bruno leviatano Partorito dal grembo della nebbia Nel tiepido ventre mi raccoglie In compagnia di grigi, funesti demoni Tossenti, esalanti virus influenzali, Salmodianti misteriose litanie. Mi guardano sottecchi, amicanti, Per associarmi ai loro mesti canti Ma il mio mondo è su un’altra sfera Che ruota solitaria nel buio e nella luce.
Cimiteriale profumo di rose antiche, Fragranza di caffè, di pane. L’ombra del sapere si diffonde: I suoi foschi tentacoli traspaiono Al fondo melmoso del lago Violetto e bruno d’inchiostri. “Non misurare il volo delle tortore La levigata scapola dell’agnello Il fondo del bicchiere. Alla fine del viaggio Potrai sfogliare il libro del destino”. Così parlò il mio nocchiero Manovrando la grande ruota.
Sobbalzo alla fermata dell’ospedaletto: Dai cancelli le grida di antiche sofferenze. Lo spaccio sotto i portici, i mercanti Cacciati dal tempio. Chiesa dell’Annunziata: dietro il portone chiuso Gli ermetici riti del buio e del silenzio. Al ponte di mezzo mi dice il conducente Con voce roca incrostata di ruggine: “Grida che sei di Dio, ripeti sempre Che appartieni a Dio, se no ti perderai Sulle rive del fiume, smemorato per sempre”.
Il fiume è secco, solo le nutrie e i corvi E qualche specchio d’acqua rabbrividente. Grido: “Appartengo a Dio, io son di Dio!”. Dai piedi del ponte neri vapori Si aggrappano con furia ai parapetti. Ripeto disperato: “Appartengo a Dio!”. Le loro mani attraverso i vetri Afferrano i compagni di ventura Strappandoli ai sedili, Fumo anch’essi divenuti Come tutto sembra essere il mondo. “Non torneranno, dice il mio nocchiero, Grigi vapori portati dalla corrente, Si spegneranno in mare”.
Via Mazzini, nei grandi magazzini Entrano ed escono azzurre ombre Utopica fiumana di diffuso benessere. Geme nel buio dei vicoli la nera Ragna di povertà, tracima Nelle strade del centro. L’autobus è vuoto, Siamo rimasti io e l’autista soli. Una luce, piazza Garibaldi Preferito giaciglio del sole. “Per via della Repubblica non farò fermate So che hai fretta d’arrivare”. “D’arrivare dove?” mi domando, forse domando a lui.
Quando saremo in Barriera Repubblica Mi fermerò senza guardarti E muto tu discendi, Bevi l’acqua della fontana, Non voltarti indietro E’ la strada del ritorno Un sentiero di selvaggia foresta.
Bagno la fronte con l’acqua della fonte, Ne bevo dal palmo della mano. Intorno a me un dolce scampanio Di lontani campanili. Nella nebbia che si dirada, Un cerchio di ombre luminose, Sento le loro voci, le vedo attorno a me: Benedetta, felice schizofrenia. Hanno l’aspetto familiare dell’infanzia Come mi fosse caduto dalle spalle Il peso degli anni.
“Vieni con noi” mi dice una voce, Voce dolcissima di madre E gli occhi miti di mio padre Mi sorridono dietro le lenti spesse. “Siamo con te da sempre, Ma tu non puoi vederci”. E tanti amici avevo attorno E parenti che mi furono cari. M’incamminai con loro. L’arco di San Lazzaro Svettava nella nebbia.
“Fermati ora!” La voce di mia madre Divenuta imperiosa: Una donnina esile e mite Eppure così autorevole. Aveva in mano una benda nera, Me la strinse sugli occhi. Mi avvolse una notte carica di stelle. “Ecco Omero, mi disse, D’ora in poi avrai solo Le immagini della tua mente. Andrai di piazza in piazza, Appenderai i tuoi sogni Ai muri delle strade. Diranno che sei Nessuno Che non sei mai vissuto”.
Piangeva lenti singhiozzi E mio padre teneramente La strinse tra le braccia. |
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