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“Cari professori,

siamo arrivati al termine del nostro percorso scolastico, un cammino lungo il quale ci avete accompagnato giorno dopo giorno, sostenendoci anche nei momenti di crisi…”.

Era l’inizio del saluto che la classe quinta, sezione U dell’Istituto tecnico commerciale, rivolgeva a tutti gli insegnanti, in persona della rappresentante Martina, durante la cena di fine anno in un’afosa serata di giugno.

Fabrizio Tassi, professore di italiano, ascoltava emozionato, riflettendo a quanta fatica era stata fatta per accompagnare, in un viaggio non privo di scossoni, una classe che si era rivelata sin dai primi anni problematica, come non di rado accade ai giorni nostri: alunni con situazioni familiari complesse, studenti provenienti da altre scuole o con difficoltà di apprendimento, rappresentavano l’universo variegato di quel gruppo. A ciò si era aggiunto un continuo avvicendamento di supplenti, l’aggravante di una situazione già precaria.

Ne era risultata una classe non omogenea, diffidente verso i docenti e difficile da gestire, per le diverse personalità concentrate in un’unica aula. Fin dagli inizi di settembre il professor Tassi, appena nominato dal Preside coordinatore della quinta U, si rese conto che l’ultimo anno non sarebbe stato una passeggiata; era un giovane insegnante, ma la passione per l’insegnamento e l’empatia, di cui era naturalmente provvisto, gli conferivano un infallibile istinto nel valutare le dinamiche tra gli studenti.

Senza indugi prese in mano le redini del corpo docenti e prospettò la situazione soprattutto ai nuovi colleghi, che si trovarono ad affrontare una rogna tra capo e collo, neanche il tempo di varcare la soglia dell’istituto.

L’anno partì al ritmo convulso delle giornate scolastiche; entrare in quell’aula, era come mettere piede nel girone degli apatici: scarso interesse per le materie, poca voglia di collaborare e sostenersi reciprocamente regnavano sovrane. Nonostante l’intelligenza vivace della maggior parte degli studenti, sembrava che niente potesse veramente accendere il loro interesse.

“Cerchiamo di stimolarli al confronto, di proporre spunti di riflessione, ma non c’è niente da fare. Interagiscono poco tra di loro”, lamentavano molti colleghi nelle prime riunioni. Al termine delle vacanze natalizie, Fabrizio Tassi si decise. Entrò in classe e fece capire in modo chiaro ai suoi alunni che diventare grandi voleva dire innanzitutto assumersi delle responsabilità ed il loro atteggiamento non era certo da ragazzi maturi.

Il suo discorso cominciò a sortire i primi effetti nei giorni successivi, quando ci fu un via vai di studenti in sala professori che chiedevano di parlare con Fabrizio. “Prof., noi vorremmo collaborare”, iniziò timidamente la rappresentante Martina. “Il fatto è che alcuni compagni, tra risatine e prese in giro, ci definiscono leccapiedi”. “Ci evitano”, lamentavano altri. “Se chiediamo appunti o schemi, perché magari siamo stati assenti, veniamo accusati di essere lavativi e non abbiamo il coraggio di parlarne con voi insegnanti”.

Fabrizio rimase colpito dalle confidenze dei suoi alunni e si rese conto che il problema non era la volontà di studiare o l’impegno nei compiti. Il problema era la paura. Tanti anni trascorsi sui banchi non erano serviti a quei ragazzi per capire come lavorare in squadra ed avere il coraggio di esprimere le loro opinioni serenamente.

In qualità di professore si sentì responsabile della situazione, allora pensò di parlare alla classe a cuore aperto. “Il motivo per cui venite a scuola non è solo lo studio o il voto, ma soprattutto la possibilità di confrontarvi e crescere insieme, senza inutili condizionamenti”, esordì, sistemandosi con le dita i suoi occhialini rotondi. “Sarebbe bello che tutti vi sentiate a vostro agio e, in caso di problemi, non abbiate paura: alzate la mano, siamo qui per voi”.

Nel silenzio dell’aula i ragazzi si scambiarono parole mute, sottolineate per la prima volta da sguardi di complicità.

Durante i mesi successivi la quinta U cominciò lentamente ad aprirsi con i docenti e ad essere più coesa, mentre si accorciava, tra ansia e sentimenti di inadeguatezza, la distanza alla sospirata maturità.

Nel corso della cena di fine anno, Martina, con un lieve tremore nella voce, concludeva la lettera rivolgendosi proprio all’insegnante di italiano. “Professor Tassi, vorremmo ringraziarla per averci fatto capire che il valore delle persone non si misura da un voto, ma dall’impegno e dalla tenacia nel cercare di migliorarsi…Grazie per esserci sempre stato, dandoci la possibilità di diventare grandi e, se dovesse aver bisogno, non abbia paura, alzi pure la mano!”

A queste ultime parole Fabrizio ebbe un attimo di esitazione, sostenendo a fatica gli sguardi lucidi della tavolata stranamente silenziosa. Visibilmente commosso, riuscì solo ad annuire in segno di gratitudine.

Arrivò l’estate che si portò via gli esami di maturità e la quinta U. Quell’anno il professor Tassi si rese conto di aver imparato un’altra lezione grazie ai suoi ragazzi e crebbe in lui una consapevolezza: magari anche lui, prima o poi, avrebbe alzato la mano.

 

“Ricordando la scuola in presenza…”

 

Paola Salzano – Luglio 2019

 

 

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