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Tamerisco I

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 I

 

 Finiti gli studi, Piero trova un lavoro

e un amico

 

 

Io non sapevo allora cosa fosse un tamerisco.

“Sei il mio tamerisco” mi diceva Adelina nei momenti di maggiore intimità e tenerezza. A me piaceva quella parola che aveva il fruscio delle lenzuola di cotone, fresche di bucato, dentro le quali avvenivano i nostri incontri pomeridiani.

Non saprei dire come fosse nata la nostra relazione: forse per caso, per un incontro fortuito; sebbene a volte abbia il sospetto che sia stata lei ad architettare tutto, con quella furbizia propriamente femminile che non fa vedere, che dà all’uomo l’illusione di essere lui il padrone degli eventi e non, come in realtà accade, la preda, il trofeo di caccia.

Per cominciare dal principio: ero stato appena assunto nella Biblioteca comunale, mi sforzavo di credere per l’ottimo voto di laurea, in verità per una buona parola del fratello di mia madre che era provveditore agli studi. Mio zio avrebbe preferito che intraprendessi la carriera scolastica, e certamente un posto in qualche liceo me lo avrebbe procurato, ma l’idea di entrare in un’aula gremita di ragazzi, sedermi in mezzo a loro, sia pure dall’altra parte della cattedra, mi dava le vertigini. Fingere ogni giorno cordialità, simpatia, oppure disprezzo, lanciando gelide occhiate, magari alzando il tono della voce per ristabilire la disciplina (immagini queste che mi venivano dai troppo sofferti anni del liceo), incidere subdolamente sul destino di quei ragazzi: perché noi tutti sappiamo quanto nel bene e nel male gli insegnanti abbiano influenzato la nostra vita, come la loro immagine sia presente in noi quasi quanto quella dei genitori; tutto questo, al solo pensarlo, mi procurava la nausea. Quando dissi a mio zio che avevo fatto domanda per un posto in biblioteca, convenne con sdegno che il topo di biblioteca era ciò che più si addiceva al mio carattere schivo ed egocentrico.

Mi era stato assegnato un tavolo e un computer col compito ingrato di trascrivere un numero infinito di dati: titoli, autori, case editrici. Mi pareva di non dovere finire mai. Di tanto in tanto alzavo gli occhi dallo schermo incontrando lo sguardo della ragazza della scrivania di fronte, lei pure neoassunta. Scambiavamo una smorfia, per dire: “Che barba questo lavoro!” e un sorriso di complicità. Tutto lì, perché il mio interesse era rivolto a Susanna, una ragazza bellissima, simile a quelle modelle che si vedono sui manifesti pubblicitari o sulle pagine dei giornali di moda. Era molto elegante, sebbene indossasse tutti i giorni un vestito nero semplice e castigato che lasciava trapelare la perfezione delle forme e s’intonava meravigliosamente con l’oro naturale dei capelli e il verde dei suoi occhi. I maschi dell’ufficio non avevano attenzione che per lei. La prima cosa che venni a sapere, quando misi piede in Biblioteca, fu che Susanna apparteneva a un certo Pietro, un ricco commerciante in acque minerali che di tanto in tanto veniva a farle visita, un ragazzo dal fisico atletico, alto e muscoloso tipo Sean Connery in 007.

Erano vissuti insieme per alcuni anni, poi si erano lasciati e si frequentavano da amici.

Che lei fosse ancora innamorata si poteva facilmente dedurre dall’espressione felice che correva nei suoi occhi ogni volta che lui compariva in fondo al salone della biblioteca, uscendo dall’ombra, come un felino dal folto della vegetazione, pronto a ghermire le gazzelle al pascolo, che in questo caso eravamo noi impiegati, erbivori miti e affaccendati. Arrivava alla luce con un largo sorriso, attraversava la porta vetrata che ci separava dai lettori salutando con gesti delle mani larghe e virilmente pelose, impreziosite da anelli, braccialetti e orologi di marca. Guido mi guardava con occhi rassegnati: per tutti Susanna era un oggetto di desiderio, lui invece ne era tenacemente invaghito, ma con quel fisico gracile, quelle spalle strette e spioventi, quell’accenno di gobba, non era stato preso neppure in considerazione. Guido era un ragazzo molto intelligente e sensibile. Lo chiamavano Giacomo, in memoria del grande poeta. Fu la prima persona con cui parlai e di cui divenni amico. Lo incontravo di sera, in piazza, che vagabondava con aria distratta buttando gli occhi un po’ sulle vetrine, un po’ sui capannelli di ragazzette che attendevano l’apertura dei locali da ballo. Mi fermavo con lui: le prime volte si parlava di lavoro, poi semplicemente del più e del meno, visto che farsi compagnia a quell’ora faceva piacere a entrambe. La nostra amicizia nacque così. Dopo alcuni mesi m’invitò a pranzo a casa sua e mi fece conoscere la madre: una vecchina esile, esile che camminava stentatamente, sempre a capo chino a causa della schiena enormemente curva. Capii da chi Guido aveva preso la costituzione gracile e mal fatta. Sull’armadio della sala da pranzo campeggiava la fotografia di un uomo robusto, ben diritto, con un viso quadrato, la fronte alta e uno sguardo deciso.

“L’altro figlio mio” disse la signora giungendo le mani  “lui sì che è stato sfortunato!”.

Guido taceva. Potevo palpare il suo imbarazzo mal celato dietro un sorriso privo di luce.

Mentre la madre sfaccendava in cucina, noi mangiavamo in silenzio scambiandoci a tratti opinioni sul lavoro e sul tempo, che in quell’inverno era stato piuttosto inclemente. Dalla finestra giungeva il riflesso della neve che da due giorni cadeva ininterrottamente sulla città. Quando ci sedemmo in salotto per sorseggiare il caffè nero e forte, come solo i meridionali sanno fare, e un liquore di mirto dal dolce profumo di terre marine, domandai di cosa si occupasse suo fratello, se anche lui era impiegato statale. Mi pareva, infatti, che quelle braccia robuste, quel viso aperto dalla mascella volitiva, quelle spalle larghe da nuotatore non si conciliassero per niente con la durezza delle scrivanie. Guido si portò alla bocca il liquore, sorseggiò lentamente, tossì, poi scusandosi andò in bagno. Sentii lo sciacquone del Water. Mi spiegò che non c’era niente di più spiacevole del liquore di traverso. Mi confidò che a una cena gli era andato di traverso il vino e, non riuscendo a trattenerlo in bocca, aveva sporcato il bellissimo abito da sera di Susanna che gli era seduta vicino.

“Forse è da quella volta che non mi può soffrire”.

Gli dissi, usando le sue stesse parole, che non mi ero accorto che Susanna non lo potesse soffrire. Fu allora che mi confidò il travaglio sentimentale per il grande amore non corrisposto, la disperazione di non poter recidere quella pianta senza frutto che aveva messo le radici nei ventricoli del suo cuore. Così si esprimeva ed io pensai che veramente Giacomo era un grande poeta.

Quando lo lasciai per tornare a casa, cominciava a imbrunire; la neve aveva assunto una tonalità azzurrina e la notte pareva sciogliersi in essa lentamente, come un nero inchiostro. Ero oppresso dal rimorso di non  aver potuto confidare niente a Guido, di non avere nulla d’intimo da dire che potesse in qualche modo ricambiare quell’apertura di cuore tanto profonda quanto improvvisa e inaspettata che mi aveva causato non poco imbarazzo.

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