LaRecherche.it
Scrivi un commento
al testo di Mariano Bonato
|
|||
Il XXI secolo è cominciato come il secolo breve è finito, con la specie umana divisa in due, da una parte i baristi e i camerieri, dall'altra i proprietari dei muri e i clienti, a sorseggiare cuba libre col morto su qualche spiaggia al tramonto, mentre le ragazze truccate di Bahia sorridono tristezza dalle hall degli hotel aspettando che un grasso cliente finisca la sua frittura di gamberi. Si vende e si compra di tutto, per sopire vuoti alimentari e per alimentare sfrontate ricchezze; perfino le banane, come scimpanzé. Ma quando venne l'11 settembre, e zanzare cresciute a dismisura punsero il cuore dell'America, nella prima estinzione di massa dello skyline di Manhattan, biliardi di dollari insanguinati da deliri di potenza hanno spezzato i fili invisibili, hanno sepolto le emozioni con i corpi dissolti, sigillato per sempre i pensieri nella morsa di acciaio e cemento delle bare piovute dal cielo. Medioevale follia criminale di piccoli insetti emuli dei mostri più sanguinari del novecento... ma si sapeva che il dollaro e il petrolio sono quotati alla borsa di New York, come in tutte le borse della globalizzazione, molto più del sangue umano. Non il sangue blu del principe o quello un po' viola di vassalli, valvassori e valvassini; ma il sangue rosso comune dell'uomo che conosce la fatica di vivere, il sangue di chi vende il suo rene perché un compratore benestante e disperato possa finalmente pisciare senza dolore (perché la qualità della vita è importante...), o il sangue del picano diventato nero a furia di ingurgitare asbestosi nei polmoni. Così il conto dei morti non torna e non potrà mai tornare. Anche i contadini dei sobborghi di Dhaka sono sepolti dai monsoni sotto gli argini spietati della terra, mentre il mare di Sicilia è un'urna sconfinata che scintilla. La vita ridotta a sdentata paccottiglia che si vende e che si compra, questa è la cruda confessione di impotenza dell'essere che è per la morte e dei suoi deliri di potenza, con le palpebre pesanti e la corona di spine che cinge il capo di qualcuno, mentre qui c'è il solito trambusto di chi alza di scatto le tapparelle all'alba pensando di non turbare il sonno di nessuno, o di chi si appresta a sorbire il caffè per allontanare dalla testa quel cerchio fastidioso di sonno rubato. Aspetterò che si finisca di contare i morti prima di salire al giardino di Getsemani. Aspetterò che dall'alto piova manna al posto della neve; rannicchiato, intirizzito tra i cartoni in un buco d'inverno del metrò. Che pompieri e poliziotti, medici senza frontiere e angeli della città, tra gli sguardi riottosi di pasciuti benpensanti, raccolgano i pezzettini di carne sparsi prima che i cani randagi li divorino o che imputridiscano tra i cenci e le pulci nei covi degli sconnessi da ogni web, disperati senza terra e senza conto in banca. Aspetterò come un San Pietro sulla porta che, col sangue, si riversino fiumi di parole vuote nell'incomprensibile immensità dell'universo. Alla fine non sarò io, no, non sarò io a giudicare le spade innalzate al cielo come monumenti di preghiera o di bestemmia da schiere umane di figuranti passeggeri, controfigure di angeli e demoni, nei secoli dei secoli.
|
|