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Tamerisco VI

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VI

L’incontro

 

Erano passati tre mesi da quegli accadimenti. Era un bel pomeriggio di primavera. Le giornate si erano allungate, l’aria profumava del fiore dei tigli. Era possibile vedere all’orizzonte, ancora innevato,  l’arco delle montagne che in lontananza coronano il paese. Andavo in autobus al parco, dove di solito, dopo una breve passeggiata, mi sedevo al bar all’aperto per consumare una birra e leggere il giornale. Sono uno dei rari abitanti che usa soltanto il mezzo pubblico per spostarsi in città. Il percorso mi era familiare: le porte dei negozi, le vetrine che sfilano dal finestrino; spesso mi divertivo a recitarle tra me e me come una filastrocca demenziale: fioraio, Roberto parrucchiere, Casa dello gnocco, biciclette, videogiochi, negozio di stoffe, sartoria, Caffè Santo Stefano, onoranze funebri, abbigliamento, supermercato, Grande Hotel, tappezziere, bar-tabacchi, cinema Astoria, Cassa di risparmio, paninoteca, gioielleria, farmacia L’Annunziata. A volte si sta in piedi, pigiati come tonni in scatola, perché, fermata dopo fermata, la gente continua a entrare quasi che lo spazio sia infinito. In realtà siamo noi che diveniamo sempre più sottili, perdendo l’intercapedine di aria tra i vestiti e il corpo, tra corpo e corpo, limitando le escursioni respiratorie del torace. Più spesso però l’autobus è occupato da una decina di persone, sempre le stesse, che ogni volta s’incontrano senza mai conoscersi. Quel pomeriggio eravamo i soliti: una coppia di Senegalesi che lavorava in una ditta alimentare, una vecchietta che abitando in Via Salerno, una strada malfamata, teneva la borsetta ben stretta sottobraccio, per abitudine; due studentesse dell’istituto d’arte che andavano al parco con le cartelle da disegno, uno studente di lungo corso in medicina, forse spacciatore di droga, un pensionato delle poste, qualche casalinga e in fondo una coppietta che faceva le fuse, incurante di tutto. Gettai uno sguardo distratto all’interno dell’autobus concentrandomi sul marciapiede dove la gente, le bancarelle di Via Malaspina, i madonnari, i peschi del Viale Dei Partigiani che stavano terminando la fioritura sciamavano lungo i vetri dei finestrini. C’era nell’aria una serenità svagata, insolita in una città del Nord, dove tutti sono abituati ad andare di fretta, dove l’Efficienza è la prima divinità dell’Olimpo. A un tratto suonò un cellulare: “Pronto! Ciao!…Sto bene…è tanto che non lo vedo…in viaggio…pure io ho bisogno…forse questa estate…si è offesa?…perché si è offesa?……..Non ha capito nulla…” e così via. Frammenti di conversazione. Mi irritavano quelle telefonate in pubblico. Si parla tanto di privacy e poi si mettono in piazza i fatti propri. Si discute al telefono, si litiga perfino, tra un sobbalzo e l’altro dell’autobus. Mi venne istintivo volgere il capo verso quella voce che mi suonava familiare.

“Ciao”.

“ Ciao” risposi, gettando di nuovo gli occhi fuori dal finestrino. Era Adelina, la collega della scrivania di fronte. Alla fermata entrarono parecchie persone: fiati sul collo, nel migliore dei casi, nel peggiore in bocca, ed è un’esperienza sconvolgente. Contatti di braccia e di fianchi, profumi dolci delle giovani donne, forti e aspri delle più attempate. Mi sentii tirare la manica della giacca:

“Come stai?” Era ancora lei che si era avvicinata.

“Io sto bene, e tu?”. 

“ Anch’io sto bene”. 

“Abiti da queste parti?” Le domandai senza sapere che dire. Mi rispose che abitava vicino al parco.

Passeggiammo sui viali per quasi un’ora. Adelina parlava e a me piaceva stare ad ascoltare. Mi raccontò della sua vita, tenendo per sé poche cose. Scoprimmo di avere conoscenze in comune e addirittura un secondo cugino, Gustavo, un soggetto più simile a un yeti che a un essere umano. Ridevamo di lui. Io le dicevo che certamente si sbagliava: non era possibile che una ragazza così esile e delicata, così carina, potesse essere imparentata con un mostro simile. Lei godeva visibilmente di quei complimenti che le facevo in tutta semplicità.

Un giorno, quando la nostra relazione era al culmine dell’intimità, mi disse che fu proprio la sincerità di quelle parole a farla innamorare di me.

Gustavo rimase l’emblema del nostro amore. Molte coppie ricordano la musica del primo ballo o il cd che si sono scambiati nella fase del corteggiamento, altri un luogo,  una vicenda che li spinse una tra le braccia dell’altro. Noi ricordavamo Gustavo. Per esempio: se dovevo prenderla in braccio, esageravo la fatica e dicevo che ci sarebbe voluto Gustavo che era più forte di me. Oppure lei, se mi vedeva sudare e sbuffare nel compiere un lavoro in casa, diceva che sarebbe stato meglio se avesse preso Gustavo, che quei lavori li faceva con un dito solo.

In realtà non so se Gustavo fosse veramente così forte come il suo aspetto villoso e nerboruto di essere primitivo faceva pensare. So per certo che all’età di ventiquattro anni se n’era andato di casa e nessuno sapeva più dove fosse. 

Incontravo spesso Adelina sull’autobus e andavamo a passeggio nel parco. Poi prendemmo l’abitudine di darci appuntamento una volta per l’altra e l’aspettavo sul portone di casa. Si camminava per i viali parlando e ascoltando avidamente quello che l’altro diceva, come due amici che debbano ricordare gli anni dell’infanzia prima che giunga l’ora di dividersi, per rivedersi chissà quando; o come due innamorati che rimpiangono di avere perso tanti anni della loro vita senza conoscersi. 

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