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Visita ai genitori

 

Una domenica che il sole era tornato a splendere sia pure per breve tempo, andai con Guido e Adelina al mio paese che distava circa tre quarti d’ora di treno, un trenino locale in cui quella mattina eravamo in compagnia di pochi viaggiatori. La cattedrale, nome esagerato per una chiesa di modeste dimensioni, possedeva un quadro del Reno posto nella navata laterale destra. Il dipinto rappresentava Maria col bambinello e due angeli in adorazione. Il consueto soggetto dell’arte sacra. Ciò che mi spinse a proporre quella visita fu la dolcezza del viso di quella Madonna e lo scenario naturale che le faceva da cornice. 

Guido apprezzò molto il dipinto e promise che ne avrebbe scritto sul giornale di cui era divenuto assiduo collaboratore. Adelina, che di arte capiva poco, non faceva che domandare chi fosse Reno e come mai un suo dipinto si trovasse in quella chiesa di campagna. Sentendo i nostri discorsi intervenne il prete che le spiegò che quel quadro fu donato mezzo secolo fa da una famiglia facoltosa.

“Se non ci fossero i ricchi” commentò Guido “Probabilmente non ci sarebbe arte”. Io dissentii, ma non avevo voglia d’intavolare una discussione di fronte al sacerdote che invece annuiva alle parole di Guido. Usciti dalla chiesa, facemmo sosta al bar della piazzetta per un aperitivo. Guido domandò se nei paraggi ci fosse una trattoria. 

Quando dissi che ci aspettavano i miei per pranzo, una nube passò negli occhi di Adelina.

“Non vorrai portarci a casa tua, così conciata come sono”

Le dissi che stava benissimo, ed era vero. Quel mattino pareva l’eroina di un film inglese che va per le campagne della Scozia su una macchina d’epoca, accompagnata da un uomo bellissimo in pantaloni alla zuava e voluminosi occhiali da sole.

I miei, avvisati per tempo, avevano preparato un pranzetto con i fiocchi. 

Mia madre, quando parlava a Guido, non poteva fare a meno di rivolgere gli occhi verso Adelina nella convinzione che fossero fidanzati.

Mia sorella Alberta invece aveva capito e mi osservava con attenzione domandandosi se era possibile che quel gioiellino fosse proprio mio, del suo fratellino minore, che mai aveva portato una ragazza in casa.

Mio zio, che dopo la morte di mio padre faceva da capofamiglia, soppesava Adelina da maschio. I nostri sguardi s’incrociarono e parve domandarmi cosa aspettassi a prendermi quel bocconcino.

Quando ci congedammo, mi disse di andare a trovarli più spesso.

“Esagerato! Per poco non ti fai vivo nemmeno per Natale e Pasqua”

Era vero, non tornavo volentieri a casa dei miei benché amassi molto la mia famiglia. Era il paese che mi era venuto a noia, che avevo finito per detestare al punto che, se vi trascorrevo più di una giornata, mi veniva la depressione. 

 Il pranzo fu molto apprezzato. Da allora Adelina non fece che paragonare la sua cucina a quella di mia madre sostenendo che al confronto la sua perdeva dieci punti.

Quando tornammo in città, salutato Guido, ci fermammo a casa mia. Era l’imbrunire, facemmo la doccia e ci infilammo nel letto.

Adelina, per essere una principiante, era un fenomeno. Quel corpicino esile era una vera macchina da guerra; dai discorsi su Susanna traeva un’eccitazione che chiedeva imperiosamente di essere soddisfatta. La mia esperienza di poche avventure era d’amori casti, limitati quasi unicamente alla penetrazione. Presto Adelina protestò di non essere soddisfatta, mi chiese di accarezzarla e baciarla più a lungo. Un giorno esibì un libricino di pratiche erotiche.

“La clitoride tu non sai nemmeno che cosa sia”.

In effetti, era vero. Provavamo posizioni diverse. La penetrazione di per sé divenne un atto quasi superfluo rispetto alle carezze e alle manipolazioni che la precedevano. I nostri rapporti, che inizialmente duravano dieci minuti, erano diventati lunghissimi, e spesso era notte fonda quando, finito di amoreggiare, ci alzavamo, non sempre soddisfatti, per andare a cena.




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