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La parola prosciugata

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La parola prosciugata

Purché sia la gioia: la profondità della gioia.
Deve farsi spillo, essere trafittura. Sottile ed essenziale.
Tale la parola prosciugata fino al suono.
E ancora prosciugata, fino all’assenza del suono.
Perché meditativo e intimo è il luogo che origina la folgore.
Brace

che ancora non conosci cenere
vita origliata / deformata argilla
riconosciuta / trascorsa
non dimenticata.
Fedele al rosso
che torni / che non parli
che mi frastorni col tuo silenzio
Irripetibile la miracolosità del battito
– eppure possibile –

Una parola
– la sola che ti trapassa –
Troppo in alto per...
Sono io
ancora.
Dimentica
splendi
ignora.

Tu ghiaccio / tu ala
torre ascesa
con tutte le sue alate pietre.
Troppo rovente il fiato
troppo tenero il giglio!
Oh, mai del tutto fuggita,
nel nome dei lasciati
– a mia insaputa –
ti invoco fino alla supplica.

Orgoglioso silenzio
e maledetto inoltre
che graffia dagli occhi la gioia.
L’abbandonato
scrive parole di vetro.
Già si feriscono i fiori
che sognavano di nascere
e sono germogli impiccati
al gioco dell’inverno

Questi versi per te sono un inno sconvolto.
Io devo sostare nella mia ferita.
Altrove esulta la notizia della tua fortuna.
Musa oscurata
io non sono una che annuncia primizie
a chi è profeta del dire.

Arma che fu la sua luce
nebbia ormai
che più non ferisce
e tuttavia patisce
una morte più viva
intermittente
mai definitiva.

Io ti chiamo
benché non ne abbia diritto
a motivo del vuoto
e della illusoria libertà
perché le benedizioni
del Dio degli eserciti
hanno devastato il perimetro
dei confini
delle mura
delle mie certezze.

Alba / dove la luce imbianca.
A questa si fonde
la luce degli occhi.
L’anima vi riconosce il tempo
quello bloccato / il prigioniero
coi suoi nodi di catene alle caviglie.
Niente vive – niente fugge.
È pulviscolo: trapassa
le maglie della rete.
Tutto l’umano dolore non ha senso.
È polvere / solo polvere
sospesa nella luce.

Volgiti.
La notte è smisurata
ma cresce la falce della luna.
Taci delle nefandezze
– saranno lavate –
Mi danno del voi.
Perché lo permettete? – dicono –
A me che sono fraterna
delle meraviglie regali
che ignoro la palude
e l’alito di morte
dei lazzari non risuscitati.
Non tracciare cammini
che io non farò.
L’infanzia non cessa d’essere
dimora e tomba.
Le parole tornano ai righi
i suoni al silenzio.
Non chiamarmi più.
Mi si è troppo avvinghiata
addosso la vita.

Non tornano che i fuggiti.
Non si arresta che l’andare
in obbedienza al movimento.
Partire è già incontro.
Ma dove il richiamo?
dove la fonte dell’eco?
Volgersi alla nascita
– ricongiungere il cerchio –
Attuare l’unica perfezione
concessa alla vita.

Non c’è definizione per la forma
né immobilità.
L’ombra si allontana dal suo chiodo
la sua nudità è una viola dalle note sinuose.
Già dispensatrice di carezze
e per sempre disposta all’incontro
accorda l’anima al ritmo della continuità
– certa del germe che da sempre
in qualche luogo vigila il respiro –
Se tace
è un lago felice del suo abisso.

Appartengo alla mia mutilazione
come l’esilio al luogo della nascita.
Esploro il lutto e la ragione
dimentico di nascere.
Conosco l’imposizione
– che è la legge della tua mancanza –
il disuso della lingua
di cui sei custode e carceriera.
Ma esiste una cerniera dalle labbra fredde.
Lì si origina il tutto
come nel dormire il sogno.

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