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I ponti, i cerchi

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La poesia di Carmelo Pistillo de I ponti, i cerchi si bagna nel dolore primordiale, già stato prima di essere, sotto i ponti della fisicità dell’esistenza segnata dalla fragilità, da un destino prescritto di finitudine, di dissolvimento, di scomparsa, di un’assenza presentificata di volta in volta.

Il dolore era già/ prima di noi,/ sconosciuto alla voce,/ alla parola.

Ma nello stesso tempo si pneumatizza nella geometria metafisica della perfezione del cerchio, etereo, il cui ultimo grado di conoscenza non può essere dato nella realtà, se non nel mondo iperuranio delle idee, come nella VII Lettera di Platone. Sempre nella VII Lettera come nel Fedro e in altri passi dei Dialoghi, Platone fa dire a Socrate, proprio per quanto detto prendendo ad esempio il cerchio, che l’oralità è superiore alla scrittura, motivo per cui Socrate non ha scritto niente. Il fonologocentrismo socratico vorrebbe preservare l’idea del cerchio come l’idea di qualunque cosa come di qualunque persona. Ma il prezzo dell’ipostatizzazione è troppo in confronto alla perdita della realtà e la realtà non può permettersi la perdita, nessuna perdita, pena l’incompletezza, la non aderenza alla sua verità. Va infatti evitato l’errore del platonismo e di tutti i dualismi, fino al più terribile, quello cartesiano. Perché l’uomo è una persona, essere unitotale psico-fisico-spirituale, e ogni cedimento da una parte o dall’altra ne incrina la sua unitotalità, la sua realtà antropologica, che nega i dualismi, ma che salva la dualità per dare la primazia allo spirito, seppure incarnato. La stessa operazione deve avvenire, e non solo metaforicamente, ma anche nella realtà, per la parola. Perché se il concetto si incarna nella parola abbiamo il vero e proprio logos. Pertanto oralità e scrittura si possono dare allo stesso modo e entrambi sono validi. Ma se non si entra in questa ottica, antropologica, c’è il rischio di approdare all’anomia, all’afasia, oppure a una mancata con-giunzione tra significato e significante. Pena una mancanza di effetto comunicante e comunicativo. La parola di Pistillo ci conduce sui ponti della città terrena, ce ne fa assaggiare le tormentate sembianze, ma poi si scolla dal vento su cui è difficile fare attaccare l’oltrepassamento dell’esistenza se non se ne coglie la valenza antropologica. Allora, come fa tanta poesia contemporanea, la parola si strania. Lo straniamento è spesso totale nell’incoerenza logica. Ma la logica che manca è quella del cuore. Perché di logica ne troviamo tanta nei costrutti irrazionali creati ad arte da una poesia spesso logorata nel nihilismo di un senso che si nasconde sempre di più:

… si formano/ le ortografie opache/ adagiate sul nulla.

Quand’è che la poesia di Carmelo Pistillo tocca vertici di liricità? E lo fa sovente. Quando? Quando si abbandona alle note dei precordi e dal cuore sale il canto nel ricordo della sorella, Maria, scomparsa prematuramente, alla quale è dedicata la silloge, e nel ricordo dei poeti e dei pittori più amati cantati in numerose poesie.

Anche tu, amore mio,/ sorella che muti/ e trascolori,/ almeno così ti scorgo/ nel sorriso che ci accorda/ più dei giorni…

Spesso si ha la sensazione che nella poesia contemporanea la parola ceda all’insignificanza al nulla alla disperazione. Quando l’arte o l’artificio (come dire meglio non so) prevalgono nella trovata che sinestetizza anestetizzando. Preferisco la sopravvenienza del canto direttamente dal sentimento perché ci sia comunicazione, perché ci sia empatia, condivisione, come quando Pistillo dice:

Avanzano come binari/ i carteggi dell’assenza,/ un solo, enorme crepuscolo/ che isola tutte/ le lettere d’amore/ mai più ritrovate./ Sono le rinascite/ e le innumerevoli rose/ invisibili, di notte/ piantate nel cuore.

Soltanto il senso accantona la disperazione e una poesia saprà raccogliere i suoi effetti facendone storia solo nella misura in cui saprà emozionare.


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