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Sui campi di battaglia

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La fede e l’attaccamento al bene fondante e rigenerante della poesia, che è nella veglia e nell’accompagnamento, nella sua capacità rivelatoria e azzerante, è il segno vero di questa raccolta, opera prima di un autore già fortemente maturo per compattezza e misura del verso, per vigilanza e fronte di sguardo. Per una presenza radicata in quegli spazi dove tra umano e preumano il tempo e la terra si affacciano e si celano rivelando negli sfilacciamenti un progressivo disconoscimento tra persone e luoghi, tra spiriti che seppure necessariamente in contatto non si lasciano accostare. Non a caso, e non a sproposito - proprio nel cuore del testo - la verità del discorso poetico, d’ogni discorso poetico, viene indicata da Peretti stesso in una cosmogonia di impronte nella cui voce è l’origine e il mistero che ci trascende. Cosmogonia qui racchiusa nella piccola (ma in quanto tale compiutamente e perfettamente esemplificativa) area di vita del cuneese in una geografia attraversata e vista profilare nei suoi rimandi verticali, a ricucire e a rimarcare nel peso di un sotteso silenzio tutta l’inquietudine di uno smarrimento non solo personale “nel mondo che non vuole/ più essere nominato/ nemmeno sottovoce” . La dedizione è allora nel solco di un paesaggio da cui l’uomo pare non attendere più direzioni, narrato e vigilato nelle forme e nelle figure di una pericolosa interruzione e di un’oscurità senza riflessi incalzata e avversata in tutte le sue cancellazioni. Campi di battaglia (nel rimando dall’opera di copertina di Chiara Argentieri), inabitazioni che la parola e la presenza poetica tenta di spezzare dagli spazi vuoti, dai suoi frammenti colmandone i margini. Dai sopralluoghi (giustappunto il titolo di una delle prime sezioni) all’elegia della piana (cui è dedicato il poemetto in chiusura) l’attenzione infatti è sempre rivolta a quella linea di fedeltà e tensione tra spirito della natura ed uomo che sola- nei termini di una risonanza antica, e a tratti ancestrale - può rimemorarne e riannodarne il legame. La figura narrante così, nell’efficacia del libro, appare sospesa tra un’etica e una religiosità del territorio come spazio di determinazione e cura del vissuto e i disfacimenti di un moderno ai cui inceppamenti non potendo indicare vie d’uscita ne contrappone con disarmata, e realistica, onestà gli echi, le feritoie (“Che tutto, anche il domani,/ accade alle tue spalle”) e dove perfino l’amore non si discosta da questo senso continuo di terra che si affaccia e si cela, si affida e si nega tra ricongiungimenti e fredde staticità da distacco. Poesia dunque che si imbeve di questi umori nel respiro profondo in cui Peretti tenta di versarsi sempre, sempre trasmettendolo nello sforzo di far tornare alla luce “ il posto di ciascuno/ la sua parte nel vuoto che è di tutti” (come l’amico in “Guida dell’anima”). E determinazione in cui il non compiuto è riformulato già nella sua dignità di desiderio e speranza attiva, nella consapevolezza geologica e costruttiva del verso in cui è riposta (incontro “a una salvezza/ che quasi mai ci appartenne”) tutta l’inquietudine e la corrente della raccolta. Il lume così, pur nella petrosità del dettato, è in una germinalità delle ombre raccolta e racchiusa entro e oltre la refrattarietà di un suolo che dopo aver rovesciato e rimontato i confini in un’opera secca di recisione quasi attende e presagisce ancora tra alluvioni e fughe telluriche un futuro di nuove rovine. Osservatore e custode fedele di uno spicchio del paese, di una zona, di monti che “da sempre /sanno e piangono”, Peretti dunque ne testimonia il paradigma, registrandone e misurandone le voci nel tentativo di ridestare uno sguardo che da noi stessi e le case si ridisponga finalmente in un cammino, per quanto frastagliato e complesso, intessuto di una storia e di una identità comune in una terra non più animale-preda ma ventre nudo su cui, allevato, il nostro profilo nella giusta rispondenza si riconosce e si espande (vedi, ad esempio, le belle descrizioni nel primo movimento della sopracitata parte finale “Frammenti per un poemetto: la pianura”). Richiamo, però, che per lucidità del peso sa bene su quali soglie fermarsi: “Guardati dal tuo stesso guardare”, si dice, e: “Temi il guaito dei cardini,/ tu che sai”, nel pudore e nel rispetto di una poesia che sa diffidare anche di se stessa, dote assai rara ormai in tanta scrittura. Piuttosto, se un limite ci è dato segnalare, è in un eccessiva cripticità di fondo che in alcuni passaggi forse sarebbe meglio sciogliere a favore di una resa piena dello sconcerto e dell’emorragia di un tempo che qui traspare senza difese. Piccola piega comunque in una concezione della poesia raccontata e sostenuta nella sua piena e originaria sacralità: “Poesia/ è sempre l’occidente/ di ogni suo pretesto,/ uno spazio che non curva/ e non conclude (...)/ luogo/ di crolli tenaci, d’inaudite promesse”.

 

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