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al testo di Robert Wasp Pirsig
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Guardavo l’aster tra i quasi troppi anni nel giardino che conta. L’anagrafe è arida: a ‘sto punto la stagione è desolante. Svetta il numero ecumenico dei decenni, una frana ha spogliato il fianco, la pietraia di pochi giorni muta. Come si racconta è la roccia scalata per scavare una buca. E in quella buca ci getta la mancanza di fiato sopraggiunta.
Nel giardino l’aster si espone e viola il suo traguardo. Lilla, per meglio indicare la giovane pianta lì in persona. Quel fiore ha tutta l’aria per gonfiarmi il petto: luminoso, snello, profilo egizio, fa capolino il mento, e la fragile raggiera finita nella cruna di settembre per cucire la bocca a ciò che sento.
Provo amore per una chioma di petali influente. Quando la distanza tra due esseri supera l’orizzonte compresso dall’anagrafe, la posa che osservi mette tumulto nelle fibre del giusto orientamento: una contrapposizione artificiosa usata in natura solo dalla moka in attesa del caffé.
Le lancio uno sguardo appena vivo mentre infuria la nemesi di stagione. Non voglio andarmene. Adesso no.
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