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Il sogno e la sua infinitezza

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 IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA di Ninnj Di Stefano Busà, Ed. Tracce, Pescara, 2012
pp, 84

 

 di Andrea Mariotti



Come non rimanere abbagliati – va detto subito da parte mia - dalla prima lirica della suddetta silloge poetica? Essa, infatti, di cui cito il verso incipitario: “Non che io conosca la geometria dell’aria”, risulta a parer mio governata da una sicurezza del ductus poetico assoluta. Tant’è che, nei versi della poesia, si passa dall’io al noi per approdare al bellissimo infinito sostantivato “Rinascere poi…” in chiusa, attraverso un vorticoso moto centrifugo distante dall’immobile, verticalizzato io poetico in grado di sedurre tuttora poeti anche raffinati. No, nella lirica in oggetto la sintassi quasi scappa di mano (nel senso più positivo che si possa immaginare) con la stessa sapienza che riconosciamo ai grandi romanzieri indugianti su figure e dettagli apparentemente marginali rispetto alle ragioni ergocentriche di quanto vanno raccontando. Così dicendo, si dà per scontata la sprezzatura di Ninnj Di Stefano Busà nei confronti dei correlativi oggettivi; nel senso che, nella lirica in questione, la corrente poetica passa dagli umani alla “foglia che marcisce e alimenta la notte” senza divario ontologico; suscitando davvero l’impressione di una musica “sinfonica”; all’aperto, piuttosto che “cameristica”; in ogni caso moderna, tagliente, dinamica quanto più non si potrebbe. Il fatto che io indugi parecchio su questa prima lirica della silloge non deve sorprendere; avendo particolarmente ammirato, in essa, stilisticamente parlando, la splendida inarcatura “notte/incombente”: laddove la pausa metrica è talmente felice da indurre il lettore a sostare con il pensiero, mentre si allarga minaccioso l’abbraccio notturno (caso esemplare di un significante che irrobustisce non poco tramite il proprio plus-valore l’emissione di senso). Ma non posso neppure trascurare uno stilema piuttosto incisivo, della scrittura poetica di Ninnj Di Stefano Busà (sempre in merito alla suddetta lirica): alludo alle rime intra-verso (“Possediamo il godimento, il ramo stento”; “eppure è chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno”)…quante bellezze, insomma, in questa prima lirica della raccolta! e quale marcata problematicità di pensiero fino all’esplosione finale di luce! raramente, mi spingo a dire, un libro di poesie parte così forte come IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA.  A riscontro di quanto appena osservato a proposito delle rime intraverso della prima lirica della raccolta, ecco il bellissimo “fiorisce e lenisce”; (secondo verso di Poggio le mani sul tuo cuore; in posizione forte dal punto di vista metrico). Circa questa lirica, inoltre, superfluo sembrerebbe dover aggiungere qualcosa sulla plastica bellezza della chiusa (“Così la morte, una lingua muta…”); chiusa sulla quale si è giustamente focalizzata l’attenzione di Walter Mauro; eppure, dal mio punto di vista, non ho potuto non ammirare la ri-creazione, da parte di Ninnj Di Stefano Busà, di un celebre verso di Sandro Penna “…entro il dolce rumore della vita”; verso che la memoria involontaria della Busà ha perentoriamente risolto in “brusio tenace della vita” (a dimostrazione di un ductus tutt’altro che esangue, liricheggiante; di contro scolpito, in diverse poesie). Colgo qui l’occasione per puntualizzare quanto abbia poi apprezzato l’incipit in medias res delle liriche della raccolta, prive di quei “titoli-coperchio” che certamente avrebbero tolto qualcosa alla forza dirompente della scrittura poetica di Ninnj Di Stefano Busà. Di tante altre bellezze occorrerebbe dar conto, in merito alla silloge IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA; bellezze che toccano il cuore del lettore, semanticamente parlando, a parte lo splendore formale del libro;  e comunque citiamone alcune, di tali bellezze, sospese tra umano calore e nichilismo del pensiero: “Questo mi porta il mare” (verso incipitario); “Ognuno sa…Niente esce illeso” (verso incipitario e chiusa; “Costeggio il paesaggio…Sento il dolore del cristallo franto,/ la turbolenza straziata/ tra la pelle/ e l’anima mundi”; “Esiste un tempo d’attesa” (quest’ultima lirica, con stupenda giuntura al terzo verso, “l’agguato dell’inverno”)…stavo dicendo, tanto andrebbe  ancora osservato riguardo alla silloge IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA. Ma occorre qui riportare integralmente una gemma d’alto stlle, così com’è risultata alla mia lettura la seguente lirica:

 

 

“Ci pensano gli anni a puntellare

l’agguato delle ali, la liturgia

che imporpora il sonno alle ortiche.

Vi è un dolore talvolta sottile che spacca

le argille, spande i suoi silenzi

nei grumi, come il vento tra i rami.

Vi rovista il cuore nella follia degl’interludi,

ha sandali di rovi, tutta la solitudine

degli oceani, qualche seme tenace di orgoglio

a incarnarsi al libeccio, a ferire

il disavanzo della carne che deterge il dolore”.

 

Ebbene, riguardo a questa lirica, andrà osservata la raffinata e sinestetica quasi rima “sottile/argille” (peraltro preceduta dalla suggestiva giuntura  “l’agguato delle ali”); per tacere della annominazione rovesciata “Vi rovista…/ ha sandali di rovi” (laddove nell’azione del verbo “Vi rovista” è già concepito il nome, ossia i “rovi”. E dello stupendo verso di chiusa finemente allitterato non vogliamo dir nulla, tutto egemonizzato, sul piano fonosimbolico, dalla consonante D, a preparare il “dolore”, parola che suggella la lirica? Ma è tempo di abbandonarsi a una lettura tutta interiore della suddetta lirica, al di là della sua pur finissima trama sommariamente evidenziata…a Ninnj Di Stefano Busà va in conclusione il mio profondo ringraziamento per avermi offerto, con la silloge IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA, il dono di una grande, toccante e coinvolgente poesia.

 

Andrea Mariotti, agosto 2012

 

 


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