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Trasparenze

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Poesia della crepa, della frattura che fuoriesce dalle paralisi di un anima e di un io prigionieri di presenze lontane e di un futuro non distinguibile, quella di Marco Nicastro, giovane psicoterapeuta siciliano trapiantato a Padova. Poesia dolente e a tratti pericolosamente e oscuramente romantica ma autentica nel carico di inquietudine che ne è alla base ed in cui la tentazione del buio si scontra con una ricerca, una verità- seppur minima ed improvvisa- di luce a rompere staticità e impotenze di desolazione. Trasparenze, sì, come nel titolo, nella duplicità di squarci di rivelazione e detersione di sé per abbandono di ciò che più non supporta nel chiuso di un divenire costretto. La parabola allora si muove tra remissioni e indagini di natura nel cui “calore muto dell’esistere”, nei cui elementi (soprattutto marini e notturni in un paesaggio dai connotati non altrimenti prevalentemente autunnali) lo scatto di sé, nella pace, si risolve in aspirazioni e nudità di fusione. In ricerca e identificazione di spegnimento entro quel sole greco nella cui fertilità è racchiusa, “la chiave delle cose,/la loro universale combinazione” verrebbe da dire, nel grigio monotematico di una scrittura ancora, purtroppo, pesantemente ingolfata da una verbosità roboante ed eccessiva, lontana per immagini e lingua da quella contemporaneità di riferimento avvertita come occlusiva e reprimente. Seppure lingua che si rischiara un poco nel corso del testo mano a mano la presa di coscienza di un io che intravede, riconosce una possibilità di salvezza nel mettersi finalmente a nudo, re malato che nell’ abbraccio della propria debolezza sa finalmente il punto di risemina nel freddo della piana e dell’anima. C’è infatti un avanzare nella ferita basato non più o non solo sul crinale dei propri inciampi ma anche sul silenzio d’ascolto di una parola non più auto-incentrata ma corrispondente, e per questo feconda in un “Tu come preghiera” a fronte del freno terminale di noi stessi in uno sforzo sia pure a singhiozzo di “assistere infine appagato/ al miracolo della concordanza”- giacché “il gorgo s’avviluppa inutile/ se il centro non sussiste”, i dialoghi interrotti. Solido pilastro a cui Nicastro perviene anche con bei movimenti di verso per piccole e sottili sinfonie interiori dell’attimo, nella cui fede rivelatoria si leva il bene e la cura del libro contro la pressione dell’immediato conosciuto, Babilonia durissima da reggere “in una dissolvenza di punti cardinali”. Almeno questo sembra essere l’orizzonte finale che tenta di scaturire dal pantano di immobilità e sconforto sempre ritornante tra le spire di lusinghe di morte e accecamenti di uno sperare ondivago entro memorie di amori e ore mancate . E che resta comunque il demone tra demoni nella consunzione quotidiana delle prospettive entro le quali la stessa figura di donna amata risulta oscillare tra sintonie di appartenenza e promozioni calme di vita ed annullamenti e mortificazioni di “un apocalisse senza clamore”. Tra i colpi di una lotta eternamente umana si gioca dunque il lavoro di Nicastro cui auguriamo risoluzioni e costruzioni di grazia stando tra le cose, così come pronunciato nell’ultimo brano, lasciandosi intersecare e plasmare da esse- pur e soprattutto nelle inconsapevolezze, senza domande- per “mutare, mutando l’altro da sé” nei binari di una umanità riconosciuta come prossima perché egualmente sofferente e in attesa di rinascita, pensiero forte che si affaccia da queste pagine e le riscrive affidandole al solo squarcio da cui è possibile vivere ciò che si è disimparato a vivere , e cioè l’amore che “attende nel silenzio”, rosa purissima nella sacralità di un divenire innaffiato e vegliato. Per maggiore resa, però, ci permettiamo di suggerire, infine, maggiore equilibrio e sintesi nella scrittura del verso, e sorveglianza poiché, come accennato, sovente il dettato risulta offuscato da una stereotipia di immagini e di parola che rischiano di distogliere, per disvalore e cripticità, dalle istanze appassionate che premono dal fondo di una non banale interrogazione.

 

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