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Noi due oltre le nuvole

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L’ATTIMO CHE VALE L’ETERNIT
À

 

Non è facile, forse non è mai facile quando un libro ti cattura. Usualmente, però, che ne parli o ne scriva, organizzo agevolmente il discorso e la parola mi pare che fluisca. Ora mi trovo dinanzi a un romanzo che ha nel suo arco molteplici frecce e non so stabilire quale sia la più ferale. Credo quella che mira direttamente al cuore e lo fa sanguinare. In senso metaforico ovviamente. Non produce morte, ma palingenesi, qualcosa di simile a ciò che accade ai due "eroi" di questa storia, Nica e Sandro, quando si trovano entrambi dinanzi al precipizio della vita e s’azzardano a lanciarvisi, senza cautela alcuna.

Il vizio del raffronto m’induce a pensare ad altri due noti autori delle patrie lettere. Il primo è Paolo Giordano de “La solitudine dei numeri primi”; il secondo è Niccolò Ammaniti, autore di diverse opere che hanno come protagonisti degli adolescenti, in testa alle quali porrei “Io non ho paura”, se non altro per la maniera ossessiva in cui Nica, la voce narrante del romanzo di Cacciapuoti, ne riecheggia il titolo per scongiurare la sua, di paura. C’è poi da tener presente un altro libro, “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon, un successo editoriale di una diecina d’anni fa, che mi pare possa chiudere il cerchio. Potrei ovviamente fare riferimento all’intera tradizione letteraria del romanzo di formazione, ma scantonerei troppo, correndo il rischio di non mettere a fuoco le specificità del bel libro di Cacciapuoti.

È chiaro che, in tutti i casi menzionati, lo spartiacque tra i due mondi, l’infanzia e la maturità, è la sfuggente e scontorta linea di demarcazione che si chiama adolescenza. Guadare questo torrente in piena è l‘impresa più angosciante e tormentosa della vita. Sotto i nostri piedi c’è una riva solida dalla quale intravediamo la dirimpettaia che probabilmente delimita un territorio impervio, forse ostile, ma al quale dobbiamo giungere per forza. Siamo su un percorso che non prevede soste, neppure se vi s’inframmezzano ostacoli superiori alle nostre attese o, almeno, percepiti insormontabili dall’osservatore. Per quanto il mondo degli adulti possa offrirsi di sorreggerci, l’impresa è nostra e soltanto nostra. Siamo soli, unici e singolari, siamo “diversi”, benché contigui, come vogliono i “numeri primi gemelli” di Giordano. Nica, la quindicenne del romanzo di Cacciapuoti, ne ha una lucida consapevolezza, a dispetto delle pretese materne di volerla “uguale” agli altri, integrata.

L’integrazione ci sarà senza dubbio per la maggior parte di noi: essa coinciderà con la “normalizzazione”, che in effetti vuol dire semplicemente conformismo, adeguamento a un modello comportamentale pensato da altri, probabilmente in tempi storici molto distanti dal presente, e imposto come divisa da indossare, benché ad alcuni quest’abito possa andare stretto. Chi questa divisa rifiuta è considerato “anormale”, “asociale”, “diverso”, “insano” e quant’altro implichi esclusione e marginalità.

“Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”: così Sandro Penna risponderebbe all’obbligo di fingerci uguali. L’artificio del camuffamento è esibizione di un abito, non alterità. Questa è assai più pudica di quanto si creda. Nica percepisce il belletto come un orpello svilente ed io ne comprendo il complesso sentimento, anche se quasi nessuno rifiuta la maschera che indossa o gli è fatta da altri calzare. Non è mai agevole essere fedeli a se stessi, benché l’identità sia unica. Non esiste nessuno al mondo uguale a noi, nello spazio come nel tempo. Siamo inimitabili. Per clonati che fossimo, il clone non potrebbe avere la nostra stessa storia, le nostre stesse esperienze. C'è di mezzo lo iato del tempo. Dall’unicità dovrebbe derivare la preziosità. L’unico è anche prezioso. Macché! Vallo a spiegare questo concetto apparentemente elementare! Siamo tutti indotti a svilirci nel mare magnum del convenzionalismo. Tutto ciò che è fuori dal magma omologante diventa peccato, dannazione. Così anche l’adolescenza, che della diversità ha addirittura le stimmate, ben visibili nei due ragazzi della delicata storia raccontata da Cacciapuoti. Vera, ci riferisce l’autore, per avere essa una fonte orale a lui ben nota. Ma a me viene da aggiungere che essa lo è tanto più perché ora la vicenda ha una veste letteraria, anzi poetica, e approda a quella verità insondabile che è il mistero. Il numero primo di Giordano, che ho voluto assumere come metafora di questa povera argomentazione, ha questo di speciale: è rapportabile solo a se stesso e all’unità, quasi che identità e unità siano l’una la forma speculare dell’altra. Alludono entrambe a un oscuro oggetto di conoscenza, a qualcosa d’inafferrabile che possiamo ben chiamare mistero. Secondo voi, qual è il numero più grande, affascinante e misterioso che ci sia? Il numero uno. Esso ha un sinonimo, che è “tutto”. A meno che la fantasia non vi faccia prefigurare più universi, il che è una contraddizione in termini, l’Universo è necessariamente tutto, ma anche unico, sicché ha insieme le attribuzioni dell’unicità e della totalità. Tutto l’esistente è dentro una totalità. Sono troppo scemo per concepire altro e vi risparmio, anche perché non ne sarei capace, disquisizioni teologiche. Non è di Dio che intendo parlarvi, solo dell’Universo che, sarà pure nato dall’insondabile casino prodotto dal botto iniziale, si è poi reso limitatamente e parzialmente comprensibile, da noi che forse ne siamo l’immagine speculare. Chi può dirlo con certezza? Cacciapuoti e la poesia. Se non dircelo esplicitamente, farcelo prefigurare con lo strumento della parola ben scritta, della storia ben narrata. Storia d’amore, intendiamoci. Tra una quindicenne e un sedicenne, in qualche modo e per differenti motivi “diversi”, esclusi dall’umano consesso, forse dalla vita. Anche tra loro medesimi la frattura pare insanabile: non c’è ponte che unisca gli esseri umani, neppure l’incoscienza degli adolescenti. Sennonché, che sia l’estate, che sia il mare, che sia la luce, che sia il cielo stellato, il ponte sembra costruirsi da sé, probabilmente progettato da quell’invisibile architetto che si chiama amore. Coniuga due esseri che le avversità e le circostanze vorrebbero distanti, precipitandoli, congiunti, entro l’ebbrezza del vuoto, nella voragine di una caduta libera che le montagne russe o il tuffo da una scogliera o l’immediatezza di un bacio umido traducono nel caos primordiale. L’identità si fa bina e multipla, tende a smarrirsi nella festa della ritrovata compatibilità. Io sono te, tu sei me, siamo uno, siamo tutto e tutti. Noi siamo compatibili, sembra urlare Nica al mondo che non vuole e forse non può intendere il senso delle sue pretese, un senso riposto e misconosciuto, oltre i limiti del male che scinde e scompone, oltre la morte che incombe, oltre i vincoli della legge, oltre le nuvole.

Per intendere ciò che affermo occorre salire sull’aereo per noi fabbricato da Massimo Cacciapuoti. Siamo sulla pista, quasi increduli che il mastodonte nel quale siamo rinchiusi possa sollevarsi in volo. Non ci crediamo neppure quando corre veloce verso l’orizzonte. Poi il miracolo del distacco brusco dal suolo e il senso di smagamento che ci assale via via che il velivolo prende quota. Il mondo si perde sotto i nostri piedi, sempre più piccolo, sempre più distante. Una massa grigia e densa ci avvolge. Siamo persi, non c’è appiglio al quale possiamo aggrapparci, il panico è segnalato dall’ottundimento dell’udito, per la pressione che cambia, certo, per la pressione. Poi il miracolo dell’emersione sopra un candido manto di bambagia. Non ne percepiamo la caducità, solo la calma che ci trasmettono le strinature d’ori e violetti che la luce del sole dissemina sul soffice illusorio piancito. Siamo oltre, siamo altrove, forse siamo ovunque.

È così che levita il racconto di Cacciaputi: dalla gravezza del fatto all’imponderabilità della poesia. L’unico indizio di grossolanità è una lacrima che riga il nostro volto. Inevitabile. La vicenda ha risvolti amari. Eppure ti resta nell’animo quel senso di sospensione che l’amore disincrostato dalle convenzioni verbali riesce a trasmetterti. Una suggestione come un’altra, tanto più gradita quanto più accompagnata dalla buona prosa. L’epilogo rivela la tenacia dell’unicità, dell’irripetibilità. La fedeltà di Nica è totale, va ben oltre la promessa fatta a Sandro. Ti fa star bene, sospeso in una dimensione nella quale l’attimo e l’eternità si equivalgono, forse coincidono. Ben oltre le nuvole!           

 

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