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Giornata mondiale del malato

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Guido Brunetti

Giornata mondiale del malato

 

L’11 febbraio ricorre la Giornata mondiale del malato istituita il 13 maggio 1992 da papa Giovanni Paolo II con lo scopo di sensibilizzare le istituzioni sanitarie e la società sul problema dell’assistenza e delle cure mediche, superando l’amarezza della solitudine, dell’indifferenza e dell’abbandono.

 

La sofferenza nasce con l’uomo, è un fattore originario, biologico, naturale dell’esistenza. A sua volta, il termine salute indica non solo assenza di malattia come viene comunemente intesa, ma capacità di esercitare al massimo le proprie qualità fisiche e mentali.

 

Oggi, la funzione della medicina non è soltanto quello di curare, ma soprattutto di prevenire, rimuovendo le cause patologiche. La salute è quindi ‘lo stato di benessere completo, fisico, mentale e sociale’ (ONU)”.

 

Nell’antichità emerge una concezione magico-religiosa della malattia intesa come punizione divina e trasgressione verso le norme religiose e morali. Questa visione è presente in molti autori, come Omero, Eschilo, Sofocle ed Empedocle. E’ con Ippocrate (460 a.C.) che la malattia e la salute si staccano da una visione metafisica e vengono descritte come evento dovuto a cause naturali.

 

Il passaggio definitivo da una medicina non scientifica a una scientifica avviene nel XVI secolo, quando prevalgono le teorie organiciste fondate sul metodo induttivo. Arriviamo alla rivoluzione della medicina contemporanea del Novecento, che tuttavia ha un prezzo molto alto: la tendenza alla spersonalizzazione e alla disumanizzazione del rapporto medico-paziente, come mostrano gli studi condotti da illustri medici.

 

L’umanità non è perfetta. La sofferenza è una triste compagna, cupa e oscura, dell’essere umano. E’ una sofferenza individuale: sofferenza del corpo, ma soprattutto sofferenza dell’anima, ansia, depressione, angoscia, avvilimento.

 

Gli sviluppi tecnici della medicina, in realtà, tendono a ‘ridurre’ il malato a un corpo passivo, cancellando così la sua soggettività e impedendo un rapporto personale con il medico, che per noi è di fondamentale importanza.

 

Il ricovero in ospedale poi offre un’immagine desolante, un’esperienza trumatica: la mancanza di informazioni comprensibili sulla propria salute, la disciplina, il regolamento, l’ansia per gli esami di laboratorio e per le cure, la fretta, l’atteggiamento di distacco, di sufficienza, di paternalismo, di algidità mista spesso ad arroganza di tanti medici e infermieri, la mancanza insomma di empatia. Sono tutte situazioni penose che proiettano l’impotenza e la totale subordinazione del malato ad un sistema fondato su interventi tecnici e burocratici.

 

Talora, i problemi del paziente vengono ‘mistificati’ dal significato magico delle medicine, spesso inutili o dannose. Il malato ridotto quindi a malattia, a un meccanismo rotto, a un guasto biologico.

 

Il primo farmaco, la prima forma di cura, cura del corpo e cura dell’anima, è il rapporto empatico medico-paziente, Un rapporto che deve essere sempre intessuto di gentilezza, disponibilità, calore umano e saggezza. La gentilezza è per noi la più alta forma di educazione e di rispetto. E’ l’aperura di un’anima verso un’altra anima. Senza queste qualità, la medicina risulta sprovvista di antropologia relazionale e il medico appare come dimezzato, un burocrate, un somatologo. Essere medico è tensione morale: il fare bene e rispettare il malato.

 

Anche le parole hanno una grande risonanza sul malato. Le parole definiscono la dimensione della cura o della non-cura. Possono procurare speranza e conforto. Le parole infelici invece possono causare ferite che- ha scritto il grande psichiatra Eugenio Borgna- ‘sanguinano’ e non si cicatrizzano più’.

 

I farmaci quindi non bastano. Uno dei più gravi guasti inferti alla professione medica è che molti medici hanno smesso di visitare i pazienti, fidando solo nelle indagini di laboratorio. In realtà. la visita medica stabilisce una relazione terapeutica medico-paziente. In questo modo, la medicina ha ottenuto in tecnologia ciò che ha perduto in umanità. Abbiamo una medicina che si dibatte tra disumanizzazione ed esigenza di umanizzazione. C’è una evidente crisi di identità e la difficoltà di elaborare congruenti strategie e di gestire il doloroso destino del malato.

 

Che cosa fare? La sanità -ha scritto l’eminente giurista Sabino Cassese- ‘soffre di malattie croniche, è molto malata’. C’è necessità dello sviluppo e della diffusione di una cultura sanitaria. L’ippocratica ars curandi non è solo scienza, ma deve ritornare ad essere la teoria dei rapporti tra due esseri umani: il medico e il malato. Un rapporto fondato sui rapporti dell’antropologia curativa e del rapporto interumano. Davanti alla sofferenza e al dolore non si può vivere nella routine, nella fredda e neutrale consuetudine consacrata dall’uso.

 

Ricerche, al riguardo, hanno dimostrato che la creazione in ospedale di un clima di accoglienza, calore umano, rispetto, disponibilità e gentilezza determina una positiva influenza sulla stessa malattia e sulla stessa cura. E’ prendersi cura, accudire. Una struttura sanitaria è un luogo speciale, che dunque richiede personale speciale., E’ il luogo della sofferenza e dell’angoscia, del dubbio e della speranza. Deve essere pertanto- lo ribadiamo- il luogo dell’empatia, del calore umano, della disponibilità e soprattutto della gentilezza.

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