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al testo di Amina Narimi
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Quando l'anima si riempie, in ogni piega, di emozioni scambiate a bassa voce tu notassi la luce che proviene sottile come un'ostia fino ai piedi come alza e abbassa dentro il cuore un deserto lunghissimo di stelle.
-Ha fatto un passo indietro l'altra notte- dove il corpo stava per finire, mangiato a colpi di parole, nella tua vacca di legno- sensuale e delicata, non ha perso la sua infanzia nè l'amore in pieno giorno al tuo cospetto, minotauro che hai seguito quel sudore volendo penetrarla nella mente ]
La soglia è sempre umida del cuore dove il suo morire resta vivo, inseguendo i picchi sopra il tronco la semplicità sospende il tempo, nutrendo il desiderio e l'altro nome del paesaggio che hai smarrito nel cortile della reggia, una miniera che si apre nel divino, portatrice di pietà tra le visioni c'è l'inferno della gioia -e la pazzia dell'ardimento- che si offre nuda, nelle movenze di una beghinale, fidanzata al godimento eterno della luce, ch'è regola a se stessa
dove tu hai visto un pentolone solamente, con la maga che lo gira, c'è una donna, nella cavità della bellezza, cristallina, quanto più la senti oscura, lei rimesta delle erbacce nella terra con i fiori, con lo stesso amore dei tuoi versi, il richiamo irresistibile a scavare negli stagni, come fossero dei laghi, con le gambe indipendenti dal pensiero; lei si affida, sussurrando al selvaggio delle acque, ai buchi della sua magrezza, mettendo semi nel sambuco, aria di menta
non hai scorto, dalla tua più alta luce per uno stelo d'erba il viso in lacrime nè l'orgasmo della legna dentro il fuoco per l'acqua da scaldare, nel vivaio le sue mani, quando stringono selvatiche la grana delle cose, dentro casa quanto minuscoli i suoi occhi, come piccoli eserciti instancabili di ciò che hanno amato pelle ed ossa, nelle crepe della siccità, per ogni goccia che girava sui bordi della fede, con amore, per un filo di freschezza, di fertilità. È troppo presto
per la memoria delle lacrime appena pronunciate; la dolce febbre dell'acqua che risale è un arco spalancato, un gesto d'apertura dove tace, se vibrando ascolta di un altrove, su questa stessa terra; dal buio del fondale io la sento respirare, scrivendo la sua maternità nel fango: "Ho sepolto tutto ciò nella poesia" ripete, con un chiarore nero intorno al cuore, nella gioia che le dona la ricchezza di raccontare al suo ritorno di qualcuno che ha battuto così forte contro il petto, traducendo dal dolore come un suono, nel mite dondolio da ramo a ramo lasciando tracce dalla bocca dei tre pini alle orecchie della quercia che passava la sua voce tra le mani , ed è qualcosa che rimane ad aprirmi senza fine. |
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