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Hara

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Ripeto il tuo nome come sigillo

mentre sale alla gola la parte nascosta

di tutto ciò che è manifesto

ripeto  il tuo nome, nel giro dei rulli

delle preghiere, nell’acqua che scende

dalle tue mani sul sasso, la felce

e una giovane pigna confusa alle altre.

                             

Il tuo vento serale illuminato

spinge lontano dal tempo  lo sguardo.

Nel reciproco scambio del nostro calore

il corpo riflette immagini e vita

riverberando nei piccoli grani

che il verbo conoscere porta nel ventre

la mano, in ebraico, come una mussola,

e aggiungendo una lettera, alla sorgente,

apre  la breccia, divina per gli occhi:

 

il dito di Venere sfiora la testa

e quello di Giove la cistifellea,

il medio, Saturno,  lo spleen della milza,

con l’anulare, il dito del sole,

mette l’anello al tuo fegato santo,

il  mignolo infine si lega col cuore.

E tutta la Mudrā  è solo al principio

 

di quando portavi  una piccola mano

a una sposa, d’argento, promessa e sul muro

della sua  casa coloravano mani

bambini lucenti per il matrimonio.

Risalgo il sentiero, seguendo il calore

 

tra le piccole chiavi delle clavicole

varcando la soglia del  pomo d’adamo,

il  prisma di suoni,  i suoi colori,

sotto la lingua, dove è custodito

cosa avvenne negli inferi.  Ecco i gradini

i pioli e la yurta. Un corpo intero

contemplo nel viso  fra le mie mani;

 

ripetono i piedi, le orecchie,  i tuoi passi,

e gli angoli curvi delle mandibole   

le amate ginocchia. Mi piego al respiro,

a pregare il mediano, la sacra colonna,

il tuo naso è  la schiena che lenta accarrezzo,

posando l’amore sopra gli zigomi

le piccole ali, i nostri polmoni.

Negli occhi,  al principio, trovo il tuo cuore

e un nuovo bacino sopra la fronte

fino ai capelli, i tuoi reni, ti bacio

le radici celesti distese nell’aria.

 

C’è un  matrimonio nel viso, concorde

la nostra bambina dentro la culla,

nel corno d’amon, si è arrotolata

al cervello più antico fra le sue madri,

la dura e la pia; e uno splendido ragno

bagna ora  la tela,  il santuario di fuoco,

con nodi vitali- tra i giovani fili

 

si scorge nell’ombra madreperlacea,

dove ondeggia una pigna ricca di nero,

al   ritmo solare la bianca sostanza,

si espande nel buio  in corona radiosa

fra i suoni degli organi e nomi di membra.

 

Una lingua di gioia cola nell’hara,

dalla cima dell’albero tinta d’azzurro

alla piccola mandorla, orlata di luce,

nella stasi più grande del nostro Sabbat.

 

 

 Gil - 23/07/2017 07:36:00 [ leggi altri commenti di Gil » ]

Ho peccato di presunzione credendo di poter interpretare il testo di Amina, con le stesse chiavi di un pensiero logico-razionale - che in fondo è il peccato dell’Occidente quando si chiude alla possibilità del Mistero -, mentre la sua lingua è, traversando le parole e i loro selettivi accostamenti - costruzioni di una geometria spirituale o dei frattali dello spirito - una liturgia del simbolo che concede in dono l’accesso al Reale , alla Verità di ciò che puro più non appare se non alla capacità di chi "vede" l’Invisibile. Ogni poesia di Amina diviene allora un canto, chiama alla lettura vocale, poiché sono nelle vibrazioni sonore di quelle sue "sacre" parole, si può entrare, senza più la "testa" né solo con il cuore ma ristabiliti nell’hara, in quella dimensione Altra dove vive il Tutto e tutto lì torna alla Vita, dimensione che per noi diviene manifestazione dello Straordinario, mentre per "Claudia degli Alberi" diviene straordinaria "ordinarietà" e confidenza con ciò che non si vede ma ancora e sempre è. Infine, non solo nel testo risplende la bellezza e lo forza primordiale e biologica di una relazione fisica di tipo materno-filiale in stato viscerale, ma quasi manifesta in analogia d’immagini la Creazione negli atti creativi di Dio.

S.M.I.P.

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