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al testo di Amina Narimi
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Ripeto il tuo nome come sigillo mentre sale alla gola la parte nascosta di tutto ciò che è manifesto ripeto il tuo nome, nel giro dei rulli delle preghiere, nell’acqua che scende dalle tue mani sul sasso, la felce e una giovane pigna confusa alle altre.
Il tuo vento serale illuminato spinge lontano dal tempo lo sguardo. Nel reciproco scambio del nostro calore il corpo riflette immagini e vita riverberando nei piccoli grani che il verbo conoscere porta nel ventre la mano, in ebraico, come una mussola, e aggiungendo una lettera, alla sorgente, apre la breccia, divina per gli occhi:
il dito di Venere sfiora la testa e quello di Giove la cistifellea, il medio, Saturno, lo spleen della milza, con l’anulare, il dito del sole, mette l’anello al tuo fegato santo, il mignolo infine si lega col cuore. E tutta la Mudrā è solo al principio
di quando portavi una piccola mano a una sposa, d’argento, promessa e sul muro della sua casa coloravano mani bambini lucenti per il matrimonio. Risalgo il sentiero, seguendo il calore
tra le piccole chiavi delle clavicole varcando la soglia del pomo d’adamo, il prisma di suoni, i suoi colori, sotto la lingua, dove è custodito cosa avvenne negli inferi. Ecco i gradini i pioli e la yurta. Un corpo intero contemplo nel viso fra le mie mani;
ripetono i piedi, le orecchie, i tuoi passi, e gli angoli curvi delle mandibole le amate ginocchia. Mi piego al respiro, a pregare il mediano, la sacra colonna, il tuo naso è la schiena che lenta accarrezzo, posando l’amore sopra gli zigomi le piccole ali, i nostri polmoni. Negli occhi, al principio, trovo il tuo cuore e un nuovo bacino sopra la fronte fino ai capelli, i tuoi reni, ti bacio le radici celesti distese nell’aria.
C’è un matrimonio nel viso, concorde la nostra bambina dentro la culla, nel corno d’amon, si è arrotolata al cervello più antico fra le sue madri, la dura e la pia; e uno splendido ragno bagna ora la tela, il santuario di fuoco, con nodi vitali- tra i giovani fili
si scorge nell’ombra madreperlacea, dove ondeggia una pigna ricca di nero, al ritmo solare la bianca sostanza, si espande nel buio in corona radiosa fra i suoni degli organi e nomi di membra.
Una lingua di gioia cola nell’hara, dalla cima dell’albero tinta d’azzurro alla piccola mandorla, orlata di luce, nella stasi più grande del nostro Sabbat.
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