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al testo di Angelo Naclerio
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LEI L’incontrai una sera qualunque in Corso Firenze. Aveva dritte gambe affusolate, le natiche agili, la vita disegnata per l’abbraccio, il petto armonioso, le braccia morbide, le vesti di semplice finezza, il viso delicato, i capelli sbarazzini, i lobi ornati da piccole gemme argentee. Nel chiaro d’un lampione mi affiancò con grazia decisa. Una donna, certo, di intrigante bellezza finemente amalgamata ai chiaroscuri dell’ora tarda. Mentre inebriante sentivo avvolgermi la sua eleganza profumata meccanicamente scesi dal marciapiede come se anch’ella dovesse attraversare la strada. Fu un attimo: sul bianco delle strisce pedonali persi le sue curve sorelle languide della Luna piena. “Una visione” - mi dissi- la notte scrutando intorno a me di colpo tornata vuota. Ancora vagolava nei miei pensieri quando, a pochi passi da casa, presso l’ultimo lampione, credetti di ritrovarla. Subito mi disillusero le linee disarmoniche, l’andatura sgraziata, il busto appesantito, le braccia cadenti, il capo mal proporzionato, l’abito insignificante. Con movenze stanche e scoordinate proseguì ignorandomi e si dileguò mentre deluso salivo il primo gradino verso il portone. La mattina successiva, era Domenica e l’aria era tersa da tesi sbuffi di fresca tramontana, a Castelletto, imboccando la breve strada verso l’Ascensore “per il Paradiso”, nel gioco dei pini mi parve si muovesse flessuosa. Allungai il passo con un sorriso, rapido giungendo alla Spianata ancora deserta: non v’era traccia di lei, nuovamente svanita chissà come e dove, alla mia ricerca lasciando la fantasia dei tetti tra cielo e mare distesi sotto lo sguardo lampante della Lanterna di nere modernità sdegnoso. “Come violata beltà l’abito subito ricompone l’orizzonte dai grattacieli scucito il filo suo padrino dello scoglio dinanzi l’Alpi d’Occidente in singolar tenzone levato”. Tale fantasticheria spudorata mi seguì fin dentro l’Ascensore. Poco dopo camminavo lento, solitario nell’ora presta, verso Piazza De Ferrari quando improvvisamente al mio fianco la ritrovai, tuttavia non era più luminosa e sciolta bensì curva, cupa: pareva che una scura pennellata fosse da un recesso della notte penetrata fin dentro la luce del giorno per rivestirla d’oziaca apparenza. Scrollai le spalle, distolsi lo sguardo e continuai un po’ più svelto la mia passeggiata. Mi accorsi quasi subito che mi stava seguendo: rallentavo, acceleravo, lei disinvolta assecondava la mia andatura, a volte un poco indietro, a volte un po’ davanti, senza mai staccarsi. Partecipava con naturale sicurezza ai miei spostamenti, tuttavia nulla traspariva, nulla si svelava, non una parola, né un cenno, uno sguardo, un suono, nulla attraversava l’aria sospesa tra di noi. Mentre passeggiavamo in silenzio, soli benché vicini tanto da poterci toccare, un sentore d’incertezza m’invase, dilatandosi allargò l’indefinita vacuità e la condensò in pensieri monchi, confusamente sballottati dentro rapide montanti di tensione. Scartai bruscamente dall’incalzare inquieto delle sensazioni, fra Palazzo Ducale e le goccioline, in fuga dalla Fontana fin sopra i miei occhiali, allungando le gambe con scatti liberatori. Pochi passi d’illusione e di nuovo la percepii: raccolta su sé stessa, nelle sembianze indecifrabile, sfumata nelle intenzioni, come se, avendo ascoltato l’accelerazione incontrollata del mio cuore, stesse cercando di non farsi notare. Ancora mi accompagnava, guidata da una sensibilità ferina seguiva precisa ogni mia mossa, tranquilla e confidenziale muovendosi nel gioco della sorte che a lei ignota senza remore mi accoppiava. Di sottecchi continuai a sorvegliarla, seppi che in nessun modo avrei potuto comandarla, tanto inafferrabile si stava rivelando, abile e determinata. Frettolosamente cercai un’idea, una via di scampo, un rifugio, un’alternativa che mi consentisse d’ingannarla e di seminarla. Puntai ai portici di via Venti Settembre e con un rapido guizzo girai attorno ad una colonna e lì mi bloccai trattenendo il respiro, pronto a fuggire tra gli Angeli in mostra dentro il Palazzo della Borsa. Non fu necessario: non avevo nulla davanti, nulla sui fianchi, dietro. Questa volta non era riuscita a seguirmi. Guardingo mi avviai sotto i portici, controllai tutt’attorno. Di lei non v’era traccia. Leggero andando tra i primi passanti della mattina attraversai la via del poeta, indugiai davanti alla libreria ancora chiusa, proseguii. Già ero oltre il Ponte Monumentale, sul marciapiede opposto al Mercato Orientale, quando nel riflesso d’una vetrina, tra maglie e camicie ben disposte, presso un curato manichino prossima a toccarmi i talloni la rividi. Agile su basse scarpe portava ora chiari calzoni di simpatica foggia, una giacchetta aperta, una vivace maglietta sotto i capelli arruffati dal vento. Benché potesse sembrare una persona diversa sentii che era lei. Solamente non capivo come avesse in così breve tempo potuto cambiarsi, tornare e raggiungermi. “Forse abita qua vicino, io rilassandomi mi sono attardato e la fortuna, oppure la sua intuizione, l’ha aiutata a ritrovarmi” pensai. Più veloce dei miei stessi pensieri, “per quanto testarda e scaltra questa volta non riuscirà a seguirmi”, balzai su un autobus della linea 36 le cui porte già si stavano chiudendo, poi a Brignole su un 31 preso al volo. Indifferente al mezzo ed ai suoi passeggeri dopo aver distrattamente superato Piazza della Vittoria con le sue Caravelle sempre in fiore mi abbandonai alle azzurre curve di Corso Italia sul Golfo aperte incontro alle bianche evoluzioni delle vele e dei gabbiani. Scesi alla fermata di Boccadasse, certo che la calma secolare del borgo avrebbe liberato i miei pensieri, l’assillante fantasma per sempre restituendo alla sua notte. L’orizzonte era sgombro, canoisti e scolari di vela pacifici si incrociavano, il mare a riva taceva, un gatto pasciuto studiava la fontanella asciutta, sui serramenti sui muri quieti i colori pastello riposavano, poche consunte reti sonnecchiavano salate. A Boccadasse i sassi della spiaggia, ammucchiati come ciarlieri popolani, condividono storie segrete con le barche dritte e rovesce addormentate nella calura. Un’improvvisa trafittura infastidì uno dei miei piedi. Cercando sulle pietre una seduta più comoda lo sollevai di lato un poco spostando e piegando la gamba. Di colpo bloccandomi compresi. Era sempre lì, non ingannevole né dopotutto inattesa – fu accendersi di lampo questo pensiero – sotto i miei occhi arrampicata con il naso fin sopra il ginocchio, puntuale come l’indice della meridiana sotto il sole brillante sottile beffarda l’Ombra era me.
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