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al testo di Maria Musik
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Il Soffio delle Radici è la prima silloge poetica di Carla de Falco ed ha, recentemente, vinto l'Alexandria Scriptori Festival, patrocinato, tra gli altri, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal salone Internazionale del Libro di Torino. Prima ancora di iniziare a leggere, troviamo la citazione “Che differenza c'è tra poesia e prosa? La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un bel po'.” Charles Bukowski. Storie di ordinaria follia, 1972. Sembra che l’autrice, prima ancora di “aprirci la porta”, voglia avvertirci su quella che è la sua scelta di campo. Che, poi, il messaggio sia affidato a Buk, è un altro indizio o, forse, indicazione. Non troveremo un versificare aulico, il rigido rispetto della metrica o di questa o quella scuola di “metrica” ma il bisogno di dire molto, forse, di dirsi molto racchiudendolo nei brevi lampi poetici di chi è ossessionato dal bisogno quasi carnale di scrivere, di scriversi. Così entriamo nell’astrolabio recto di Carla de Falco: quattro partizioni, la sfera celeste “appiattita” sul piano dell’equatore ed il “punto di vista” posto a sud. Le emozioni muovono il regolo che, spostandosi da un quadrante all’altro, permette di misurare le altezze, le ascensioni, le posizioni ed i tempi. Il tutto contenuto nel cerchio. Nel darci il benvenuto, la poetessa ci avverte che questo non è un punto di arrivo, terra sacra sulla quale erigere un tempio vuoto ma piuttosto un non luogo dove fermarsi per rinfrancare la voglia della ripartenza. Il primo “quadrante” (che dà il nome al libro), ospita le origini, il loro incessante alitare sul fuoco divampante dell’emozione che si fa parola. Ma di soffio si tratta: sacro e vivificante ma, al contempo, sussurro. Il ricordo della terra natia, del latte che stilla dalle mandorle della terra calabra, dell’insegnamento che viene dal mare che paternamente ammonisce, insegna l’orgoglio del “non appartenere”, la forza dell’indignazione, l’incantesimo della poesia che risiede nel “lasciarsi solcare” custodendo, però, il segreto dell’abisso. Ma le radici sono conficcate anche nella lavica terra campana che ha disegnata, con tinte forti, la tela di Carla de Falco. Ci sono i profumi, il vulcano, il mediterraneo, Secondegliano ma tutto sfuma nel soffio che impedisce alla parola di farsi cartolina o manifesto. A questa sezione appartiene anche la poesia ksar ghilane che conduce il lettore ancora più a sud, nella notte di un’area desertica in Tunisia. Il tema del viaggio ed il ricordo della notte e dell’alba africane sono, forse, simboli del “nomadismo interiore” di chi riconosce le proprie radici ma non appartiene alla terra. Questo testo è denso di immagini che, grazie a rapide pennellate di nero (serpenti/radici ai piedi), arancione, oro, viola e rosa, ci rappresentano il luogo, il trascorrere delle ore (di nuovo, quadranti solari che ci lasciano scivolare dalla notte sino all’aurora), i rapidi passaggi climatici. Ma la conclusione è affidata al suono, quello dei tamburi che, cardiacamente battendo, accompagnano l’ingresso di un nuovo mattino. Il secondo cadran solaire, emozioni al confine, ci lascia esplorare con la poetessa il profondo sentire la vita, soffrirla senza mai, però, mai smettere di scrutare l’orizzonte e “nuovi volti al confine”. Questo è il luogo dei sentimenti più profondi, delle “persone cardine”, degli incontri che segnano. L’amore, la passione, il legame con la madre, la maternità, l’amicizia sono temi “comuni” ai poeti perché i poeti raccontano il sé e l’altro e Carla non si sottrae ma li affronta a modo suo, senza maiuscole, inseriti in un quotidiano che, da solo, basta a rendere grandi le emozioni. Ma è anche luogo dell’autocoscienza.
“è tempo per me di riscrivere miti di prendere a sorsi dal thermos la vita incrociare con grazia braccia argento alla luce scrutare non vista nuovi volti al confine. e questo arditissimo viaggio in salita percorrere a passo leggero di marcia senza mappe né esatte speranze accettando fiatone e chili di troppo affidando alla sorte non georeferenziata ogni sogno raggiunto o vetta scalata.”
Ed in questo percorso di risveglio e di veglia, colpisce il dialogo/monologo con la madre, alla quale la poetessa affida, come fosse la sua luna, le domande che già si fanno risposta. L’invettiva non è rivolta alla natura ma alla storia, ad una società barbara e bruta. E tutta la rabbia si scioglie nell’amore che scaturisce dal presagio del distacco che non dovrebbe abbandonare il figlio ad un cielo capovolto, che s’esprime nella violenza del verso che accusa pur contenendo il desiderio, trattenuto dalla necessità della denuncia, di offrire il tenero conforto cha accarezza. La chiusa di questa seconda sezione è straziante e coraggiosa, affidata al commiato per un’amica. L’autrice non usa eufemismi e verga, senza temere, la parola cancro. E l’omaggio, il più bello che rende all’amica prematuramente scomparsa, è racchiuso negli ultimi versi.
“e nelle radici della mia mente muta da allora non ho mai più trovato il senso del futuro senza lotta o l’idea stessa d’essere arrivata.”
Ed eccoci, con “la fiamma del canto”, al passaggio nel terzo quadrante. Qui, senza se e senza ma, ci si confronta con la poesia, quella di Carla de Falco. Impossibile non citare nessuno pseudonimo ammesso e aveva ragione ciarlz bucoschi: in prima persona, quasi con orgoglio e senza pudore, dichiarano la necessità del verso, descrivono la poesia come un istinto animale al quale è impossibile sottrarsi, un’ossessione che rende insensibili alla sete, al bisogno di sonno, alle “sane abitudini”. Ma questa “malattia” dello scrivere, peggio, del versificare che pone il Poeta come portatore di una parola che mette in connessione le umane sfere e le celesti, non trova riconoscimenti né spazi adeguati al volo. Così, già dal gioco di parole del titolo, “intellectu ali”, parte l’amara riflessione sul disconoscimento.
“prima fu l’albatros ferito e goffo poi è stato il falco alto levato mò c’hanno preso per un piccionaccio sporco, grigio ed indesiderato dannoso nel produrre quel suo guano che campa d’aria e bricie di granone e scampa al dissuasore ed al pestone. ...”
Ed è un altro gioco di parole, abissi per versi, che ci spinge a solcare l’ultima partitura del cerchio. In questa ultima sezione, la poetessa sembra voglia “disubbidire” al salmastro padre e palesare parte del mistero, non più “attenta a non svelar l’abisso”. Ma lo fa in versi e, quindi, esprime/manifesta ma il segreto rimane tale così come il dovere di ciascuno di trovare il suo buio. Il buio e la notte sono protagonisti di questa sezione. E’ il Vespero che porta la luce, Lucifero/Venere, che vive nella notte ed è l’ultima a scomparire sul far del giorno. La morte del poeta si compie, anch’essa, “una notte” a causa del dolore altrui. Ed è sempre nel buio che soccorre la sera che si sperimenta la stanca impotenza.
“... nel paltò sfoderato della notte un bottone ciondola svogliato. sono io che non ho ago né ho fiato per imbastire orli e piegature ...”
Ed al buio è “dedicata” l’efficace “il ladro silenzioso della vista”, a questo stato di assenza che permette di toccare il tutto tondo, che pur nell’assenza di colore, consente la messa a fuoco perfetta e perfettamente immune dalle “deviazioni” dell’abbaglio di una luce che conduce nel vuoto. Concludo con la citazione integrale dell’“epilogo in ossimoro”.
“ per tacere memorie Ho percorso emozioni. Era esigenza dare solidi argini Al mio camminare tra impressioni.”
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