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Ubaldo

Ubaldo

Aveva riempito la sua vita di grida e dei sibili acuti del suo fischietto da arbitro e dei proclami che andava scrivendo sui manifesti e sui muri delle case del paese, ma quando morì, se ne andò in silenzio ed in punta di piedi.
Di mestiere faceva lo stagnaro.
Aveva un buco di negozio proprio vicino alla chiesa grande dell’Annunziata e qui lavorava preparando, per tutta la settimana, ogni sorta di pentole e coperchi di tutte le misure e recipienti di latta che avrebbe poi esposto per venderli al mercato del giovedì.
Col suo mestiere aveva mantenuto, finché era campata, la moglie invalida e costretta a letto e l’unica figlia zitella.
Ma oramai erano pochi quelli che comperavano i suoi manufatti ed insieme al gozzo bitorzoluto che gli sformava il collo cresceva ad Ubaldo una specie di rabbia sorda contro quel sistema che imponeva modelli di vita e pentole di lusso.
Poteva mai cambiare mestiere, quando era già vecchio?
E poi non sapeva fare altro che questo.
Finché un giovedì se ne uscì improvvisamente di senno e gettò via dal negozietto, tra la folla che assisteva divertita allo spettacolo fuori programma, tutto quello che aveva: pentole e coperchi, ventagli per attizzare il fuoco dei bracieri, scope di saggina e randelli per stendere la pasta.
E anche gli strumenti di lavoro furono gettati via e, da quel giorno, per tutto il tempo che gli rimase da vivere non volle lavorare più.
Girava il paese d’inverno coperto malamente con un cappottaccio grigio e d’estate in pantaloncini da spiaggia e maglietta, sempre con una bottiglia di birra tra le mani e con il fischietto che, ogni tanto, portava alla bocca soffiandoci dentro e traendone fischi acutissimi.
Chissà forse aveva in mente, con quei suoi fischi, di ordinare delle punizioni, dei calci di rigore, lui, che amava il gioco del calcio e la squadra del Napoli, ma, dopo un breve periodo di stupore, la gente del paese non faceva più caso alle sue stravaganze.
Era diventato un particolare del paesaggio e solo qualche ragazzino, ormai, reagiva scompostamente alle sue apparizioni improvvise ed alle grida inintelligibili che gli uscivano dalla strozza, sempre più sformata dal gozzo.
Incapace di farsi comprendere aveva preso l’abitudine di scrivere i suoi messaggi sui manifesti e sui muri con dei grossi pennarelli di colore bleu.
Erano messaggi brevi e sempre gli stessi, quelli che scriveva.
UBALDO AMA IL MARE.
Oppure VIVA IL NAPOLI e, negli ultimi tempi, sempre più ossessivamente UBALDO AMA ANNA DI ROCCAMONFINA.
Forse l’aveva vista al mare, questa ragazza e se n’era innamorato, o forse era innamorato della giovinezza che aveva perduto.
Voleva cantare gli occhi azzurri e i capelli biondi di Anna.
Senza pudore riempiva il paese di queste sue dichiarazioni semplici e lapidarie.

Era andato perfino a Roccamonfina, per scrivere là su tutti i muri del paese, la sua ingenua passione per Anna, per farla meglio apprezzare dai suoi concittadini che non conoscevano quale tesoro era da loro posseduto.
Ma quei montanari non avevano capito e anzi era stato brutalmente picchiato, tanto che dovette essere medicato in ospedale.
Ma il giorno dopo, imperterrito, Ubaldo ancora pesto e con un occhio gonfio era tornato alla carica.
ANNA E’ BELLA E UBALDO AMA IL MARE solo a tratti inframmezzando ABBASSO TUTTI VIVA UBALDO.
Aveva anche l’abitudine di interrompere i comizi elettorali, specie quelli della DC e questo suo vizio di fischiare, sempre con il suo strumento, insieme alla testardaggine di voler per forza portare dei garofani rossi all’oratore di turno, gli fece passare qualche brutto momento, come quando volevano farlo arrestare e fu malmenato da qualche agente in servizio, quando interruppe il comizio del ministro.
Negli ultimi tempi, vecchio e malandato ormai, girava ancora sulle sue gambe gonfie, con gli occhi spiritati ma abbronzato dal sole, perché, nonostante tutto, continuava ad andare al mare tutti i giorni con la corriera.
Era diventato insensibile a tutto.
A volte lo sforzo che metteva nel fischiare gli faceva svuotare la vescica enorme per la birra e per la prostata gonfia come una patata.
Ma lui non se ne dava peso, menava un po’ la gamba, facendo defluire le ultime gocce e poi continuava la sua incessante peregrinazione.
Una sera stanco si mise a letto ed in sole 24 ore se ne andò senza un grido, strozzato dal suo cuore troppo grande.





 Giacomo Colosio - 14/02/2012 16:46:00 [ leggi altri commenti di Giacomo Colosio » ]

Bravo Giampiero, un gran bel racconto. Scritto anche molto bene, direi che la forma è ineccepibile...non cambierei una parola. Anzi, forse sì...al posto di lattoniere avrei usato stagnaro, perchè, almeno dalle mie parti, il lattoniere si occupa di canali e grondaie.
Non so se sia biografico, perchè su questo sito non esite quel tag, ma io così l’ho letto, tant’è!
Spero che venga apprezzato anche da altri lettori...ma si sa, fa freddo e c’è la neve...ahahah...anche noi siamo più freddini. ciaociao

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