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al testo di Giampiero Di Marco
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Quello che succede al vicolo S. Lucia
Erano rimasti nell’androne dell’Ospedale inebetiti e tremanti, più per la paura di una qualsiasi punizione che per il fatto accaduto e si sorreggevano l’uno con l’altra come i tre ciechi del quadro di Bruegel. L’uomo col suo sorriso da ebete ed i capelli arruffati, con gli occhi spalancati, sgranati quasi, nello sforzo di capire qualcosa e le due donne, la moglie e la suocera aggrappate a lui e , tuttavia, scosse come da un tremito come alberi sotto la furia del vento. I loro occhi erano asciutti e senza lacrime, piuttosto in essi c’era la paura dell’animale che viene inseguito. Avevano portato quella mattina al pronto soccorso dell’ospedale il corpicino del loro figlio lattante, avvolto in un rotolo di stracci che una volta era stato una coperta. Al medico di guardia avevano raccontato che il bambino aveva pianto tutta la notte. Ma il bambino giaceva cadavere ormai, tra gli stracci. I poveri panni che lo ricoprivano erano macchiati e sporchi in un miscuglio indefinibile di unto, di caffé, salsa ed escrementi. Il musetto livido con un grumo di muco giallastro e denso appiccicato al naso, croste di nero antico alle sopracciglia, ombre bluastre sul corpo. Giaceva spezzato e scomposto sul lettino di pronto soccorso, tragico giocattolo rotto messo in mani inesperte. I genitori si erano conosciuti durante qualche loro non infrequente soggiorno al manicomio, dove periodicamente erano condotti dalla pietà di parenti o da autorità stufe delle loro intemperanze. I due più che matti, erano affetti da una grave forma di epilessia, ma l’abuso di alcool e l’incostante assunzione di farmaci, li faceva frequentemente esibire in grandi crisi e violente zuffe per le vie cittadine. Le liti erano sempre causate dalla gelosia dell’uomo, convinto che qualche altro essere di sesso maschile potesse guardare con desiderio quella sua donna. Incitato ed eccitato da qualche buon vicino, la inseguiva così per la strada, brandendo minacciosamente una pistola giocattolo che portava perennemente alla cintola, infilata in un bel cinturone di cuoio con tanto di fondina. La riempiva di pugni non appena la raggiungeva. Perché la raggiungeva oppure, forse, la donna voleva farsi raggiungere e picchiare e girare poi con un bell’occhio nero con la stessa fierezza delle donne napoletane, che ai primi del secolo venivano sfregiate dai loro amanti. Anche quello è amore! A distanza, urlando e berciando con rauchi suoni inarticolati, li seguiva la vecchia madre, una nana, anch’essa grande epilettica, zoppa e storta con un occhio strabico e quasi fuori dell’orbita. Ed erano botte anche per lei, quando finalmente arrancando raggiungeva la figlia, che giaceva ormai riversa sull’asfalto del marciapiede, ululante grida acutissime sotto la gragnuola di colpi e di calci. Finalmente le due donne si rialzavano e ripercorrevano, sostenendosi a vicenda, il corso cittadino tra l’indifferenza dei passanti e con un codazzo di monelli che li seguiva con un coro di schiamazzi. Le due donne avanti curve e doloranti e il marito qualche passo indietro, che marciava con piglio marziale, dopo aver finalmente riposto con fermezza la pistola nella fondina. Si dirigevano così a rintanarsi nel loro tugurio che avevano comperato a caro prezzo, dato che i tre oltre alla pensione, riscuotevano anche le rispettive indennità di accompagnamento. Insomma, quanto ad entrate, stavano più che bene rispetto alla massa di affamati disoccupati che li attorniavano in quel lurido quartiere. Quel loro tugurio l’avevano riempito delle cose più inverosimili, stracci e oggetti che recuperavano dallo sversatoio di immondizie, là nella cupa a monte della città e poi provviste alimentari in grande quantità fornite loro da bottegai interessati, vendute a prezzi esorbitanti, perché i tre non capivano neanche il valore dei soldi e che per lo più deperivano dal momento che non avevano frigorifero, né tantomeno luce elettrica. Nessuna squadra era voluta entrare ad installare il contatore elettrico per il puzzo e il lordume di mura e pavimenti. Vivevano tra i topi che ballavano sui tavoli. Era venuto quel bimbo, così perché la natura non sa bene dove le sue leggi vadano a trovare una casa per la loro applicazione. Un pupazzo di pezza, trascinato in giro nelle peregrinazioni giornaliere dall’immondezzaio all’osteria. Aveva pianto quella notte, forse disturbando il sonno pesante, il letargo dell’alcool o il greve stupore del barbiturico. Erano rimasti lì quel mattino, schiacciati dal peso di quella morte che stentavano a comprendere, muti, girando intorno lo sguardo di bestie braccate. |
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