Quando mi ferisco scola il mio sangue, senza redenzione. Abita gli spazi lividi d’assenze entro la clorofilla delle mie radici sfaldate crolla come livida cascata dentro un boato di irredimibili tristezze, lacera le mura inesistenti e trema nell’assedio come pustola indomita che echeggia, senza cuciture; solo strappi e strappi strappi e strappi… Sopra il tempio lacerato suona invano, la campana.
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Arcangelo Galante
- 07/08/2018 11:05:00
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Sensibilmente toccante l’esternazione di un dolore immenso che intrappola la piena libertà di un’anima divenuta, con il tempo, preda e schiava, di ogni impossibilità di riscatto. L’autrice desidera che essa possa superare i limiti dei confinanti muri ove è detenuta, sino allo spegnimento di un dolore interiore assai bruciante, da essere percepito come se fosse quello di un fuoco, oltre ad assomigliare ad una “pustola indomita”. Amara più di ogni poetica descrizione, è però la chiusa, rivelatrice di uno sconforto immensamente profondo, che tale resta, in virtù di un’agognante attesa di fuga da quell’indicibile sofferenza, ardentemente, dentro vissuta. Un testo, certamente assai particolare, nell’impostazione tematica!
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