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Il modo migliore di rovinarsi la vita

Il romanzo di un ingegnere giramondo


Le piccole case editrici, si sa, sono molto coraggiose e aiutano i giovani scrittori che vogliono pubblicare un libro, riuscendo spesso a lanciare lavori originali e pregevoli, che meritano di essere presi in considerazione. E’ appunto quello che ha dimostrato la casa editrice Albatros il Filo, pubblicando un curioso romanzo dal titolo “ Il modo migliore di rovinarsi la vita: essere ingegnere giramondo”. L’autore è un giovane ingegnere meccanico, Flaviano Di Franza, di Venaria reale (Torino) che a soli trentatre anni ha viaggiato per lavoro in tutto il mondo, accumulando un’esperienza umana straordinaria, che ha voluto raccontare, anche per meglio prenderne consapevolezza egli stesso. L’aspetto più singolare di questa pubblicazione inoltre, è che i diritti d’autore vanno a favore dell’ADMO, l’associazione dei donatori di midollo osseo, di cui l’autore fa parte (e questo fa onore alla causa).
Siamo di fronte ad un singolare romanzo, che di romanzesco non ha nulla, perché il contenuto è tutto vero, e che si snoda come un diario, tenuto giorno per giorno, il cui andamento narrativo è da romanzo, proprio per la volontà dello scrittore di inseguire la sua stessa vicenda per raccontarla agli altri e farli partecipi.
La vicenda è quella di un giovane appena laureato in ingegneria meccanica, al Politecnico di Torino, che comincia ad affrontare la vita lavorativa, con una smania incredibile di mettersi in gioco nelle esperienze più dure, per scoprire se stesso. L’occasione gli viene da alcune offerte di lavoro che molti avrebbero rifiutato, ma che egli accetta proprio perché riguardano luoghi rischiosi e pericolosi, in cui andare, come l’Africa, la Sierra Leone, in particolare, il Venezuela e l’Indonesia. Non è però lo spirito d’avventura che lo guida, ma il desiderio di contatti umani, con realtà poco conosciute, delle quali, l’immaginario collettivo, ha solo la conoscenza deformata che viene trasmessa dai mass media. Così, avviene il suo impatto con l’Africa, e con i problemi autentici di questo paese, rispetto al quale gli occidentali rimarranno sempre all’oscuro, nella loro presunzione di voler aiutare un popolo sfruttandolo. Intanto, ogni giorno il giovane si misura con gli altri, affrontando problemi d’ogni genere, compreso quello delle malattie (si ammala di malaria, tra l’altro) diviso tra l’affetto dei suoi cari lontani e il nuovo affetto per la gente dei luoghi dove lavora, per i bambini in particolare, per la loro ineffabile povertà. Analoghi sentimenti lo accompagnano anche nelle altre terre, come il Venezuela, ove la mercificazione del sesso e tante altre cose, è pane quotidiano. L’aspetto singolare di questa narrazione è che tutto viene descritto e narrato con grande ironia, quasi con una punta di umorismo, senza mai una sfumatura patetica, perché l’autore per primo non si prende sul serio e va avanti nella scrittura del libro con la forza di chi, vivendo in mezzo a difficoltà di ogni sorta, momento per momento deve riappropriarsi della sua esistenza, per non perdere di vista i suoi valori, i suoi obiettivi e la sua identità. Ne nascono pagine assai piacevoli, in cui vengono esaminati punti nodali di crescita della personalità, dalle amicizie, all’amore e al rapporto con le donne, viste come un universo da esplorare e capire. Ma quando si toccano argomenti come il mondo del lavoro, competitivo e aggressivo, la logica crudele e spietata del potere nei paesi sottosviluppati, con tutte le conseguenze tragiche di guerra e di morte che ne derivano, il tono della pagina diventa serio, sostenuto da un tragico pathos narrativo, che rende il senso del coinvolgimento da parte dell’autore. Lungo questo percorso, che possiamo definire di formazione, perché in effetti l’uomo che vive e racconta prende atto del suo graduale cambiamento e della sua progressiva maturazione, si avvertono alcuni referenti fondamentali quali Gino Strada, il cantautore Ligabue e Paolo Cohelo, accompagnatori ideali del cammino di Di Franza, con suggerimenti e stimoli, di notevole forza.
Il romanzo, un vero work in progress, non si conclude, o meglio non si conclude nel modo convenzionale, magari con un happy end che ognuno aspetta, ma con un “nostos” simbolico a quella che è l’Itaca dell’autore, Venaria, come luogo continuamente desiderato per ritornarvi, ma soprattutto come luogo che per primo gli ha dato gli stimoli e l’imput per partire. Ogni uomo ha la sua Itaca, basta saperla riconoscere e desiderare ritornarvi.

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