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La Fabula di Silvia Martufi


FABULA
di
SILVIA MARTUFI


Fabula è un titolo che annuncia una mappa da seguire, un viaggio leggendario, antico, iniziato da lontano e che prosegue e si ripete da sempre, ogni volta che la parola gli dà voce, una parola poetica che per sua stessa natura è un “fare” interminabile e continuo.
Per un poeta come Silvia Martufi, tra l’altro analista junghiana, il passato ancestrale dell’essere umano e l’inconscio collettivo, ritornano nella poesia, perché la poesia non ha tempo, i poeti sono diversi, ma la voce è la medesima, che parla o canta, al di là di ogni barriera e rinnova il prodigio della favola eterna dell’uomo, fatta di amori, di partenze, di ritorni, di addii, di ritrovamenti, di viaggi verso se stessi e verso l’altro da sé.
Il sé, punto centrale della personalità, è il punto da cui inizia il viaggio, ma anche il fine e lo scopo di esso. L’io si adatta gradualmente alle richieste esterne e ai bisogni dell’inconscio e delira, tra immaginazione e pensiero, in un racconto poetico che ha la pretesa di riannodare i fili col passato e mantenerli ben tesi col futuro.
Il passato sono gli dei e gli eroi, il presente sono gli uomini che vorrebbero essere eroi e guardano agli dei per assomigliare loro. La Martufi coglie il momento dello stretto rapporto tra mito e storia e incanala la sua poesia in quella che Ungaretti definiva “l’intermittenza del cuore”, collocandosi come la voce che raccoglie l’eredità mitologica e, sfrondandola del vero e del falso, la trasforma in leggenda moderna, da fare propria e da autenticare nella vita vissuta.
Innanzitutto c’è la riscoperta degli dei, che è in fondo l’aspirazione al divino, ad un divino che significa “potenza” e “onnipotenza” e che tuttavia cerca di farsi umano. Si spiega il richiamo frequente ad Omero, ma anche alla Bibbia e ad un’opera di biblica attualità e di nuova mitologia, come i Dialoghi con Leucò pavesiani.
C’è poi la visione degli eroi e quella degli uomini: i primi altro non sono che esseri mortali legati ad avvenimenti divenuti leggendari e che quindi mostrano di avere elementi di divinità, per ciò che hanno fatto e compiuto; i secondi, gli uomini, non fanno che imitare i modelli degli eroi, modelli per ciò stesso divini. Dei, eroi e uomini sono la stessa cosa e sin dalle origini dell’esistenza, ripetono la medesima ricerca. Il viaggio della Martufi, è viaggio della coscienza, che muove da una luna turca , vista quasi di sghembo e si dispiega man mano tra luminescenze di ricordi di viaggi, realmente avvenuti, tra sogno e realtà, tra leggenda e verità. Il racconto fantastico accompagna la nave che viaggia, su cui s’ intravede la figura degli sposi, degli amanti che si cercano, mentre si centralizza sempre di più il tema dell’amore, come solo alveo riconoscibile della coscienza. Con incredibile lucidità l’autrice sposta continuamente la sua energia psichica, da un processo primitivo e istintivo che investe Ulisse e l’universo omerico, ad un processo attuale, spirituale e culturale, che investe il suo io, ma di conseguenza il nostro io di lettori.
L’attenzione del poeta va ai respiri, ai sussulti, ai segni, in un procedimento analitico ( certo di stampo junghiano), in cui lo sguardo cattura tutto ciò che sta intorno e lo inserisce in una Koinè sintattica, in cui le immagini si fondono direttamente con i suoni, non solo attraverso l’invenzione di singolari sinestesie, ma in un precipitarsi torrentizio di azioni verbali concatenate.
A volte gli uomini sono naufraghi che vogliono somigliare agli eroi e avvertono il peso della loro debolezza, o il senso spropositato del loro limite. Gli uomini sono l’urlo e il silenzio/ di notte, e poi sono gli amanti che danno ancora/ a mani spiegate del mare/ al mare.
Ed è appunto il mare la grande presenza in questo poemetto, sia perché eterna metafora della vita, sia perché elemento vitale per il viaggio da compiere.
Il controcanto tra eroi, dei e uomini, continua e nel viaggio affiorano ricordi della giovinezza, si evidenziano un “nord” e un “sud” nelle intenzioni del poeta, un sud che prevarica il nord, e che è una riduzione, un azzeramento della volontà, ma anche un riconoscere l’autenticità dei propri desideri, soprattutto del desiderio di pace e del desiderio di amare.
La fabula prende corpo via via e nel farsi consapevole della vaghezza dell’essere e dell’amore mai pago, restituisce la sua matrice antica e leggendaria al poeta, che sa custodirla (triste vaghezza dell’essere/che prelude all’amore mai pago)
Compaiono figure mitiche, come Dioniso, il dio dell’ebrezza, contadino e capro, e Glauco, il pescatore mutato in dio marino: due esempi di uomini- dei e viceversa. L’uomo cerca Dio, chiama l’amore col nome di Dio, l’ignoto è per lui Dio, secondo il motivo junghiano che diviene motivo poetico, in un furente accavallarsi di parole e verbi come in questi versi, colmi di inquietudine: il ritorno e il raccoglimento/la pace e la sete di domande infinite/le infinite risposte che potrei dare/che non voglio dareche non so dare/amore.
E nella fabula prende corpo l’antica figura della donna amante e madre, Elettra, che nella lirica XII diventa protagonista del viaggio, in una sequenza lunghissima di momenti ed eventi dolorosi e faticosi, che sfiora la tecnica dell’accumulo, senza mai perdere di vista la vigile attesa perché si avveri una pace amorosa. L’amore è lotta ed è fatica, ma tende al raggiungimento di un rifugio, che solo il ritorno, concepito come memoria, può offrire. La Martufi riesce a cogliere la tensione verso la ricerca del riparo e del rifugio tramite il ricordo e il simbolo memoriale si incarna nell’oggetto rappresentato, attraverso la poetica invenzione di espressioni come trafittura di lago, navigata sensazione, fiotto d’amore.
Si avvertono al fondo di questa poesia colta, citazioni classiche che trasalgono spontanee, da Omero e Dante, poeti dei quali l’autrice coniuga e fa sue, la potente immaginazione e l’alta fantasia, cercando sempre di risalire agli archetipi della fabula che sta trascrivendo, ai valori ancestrali di essa, come nella lirica intitolata “Dal sale”, in cui questo elemento viene visto “purificante”. Si crea un’atmosfera onirica, notturna, lunare, intorno alla donna-poeta, che vaga maldestra incubatrice di sogni, nel tentativo di riappropriarsi dell’esistenza e di capirne il senso. Così anche nelle due liriche dal titolo “Terra” e “Ombra”, nelle quali è inseguita la vicenda dell’anima, dietro una certa rimembranza buddista, collegata al simbolo della vita umana, che è l’albero. Il mare è onnipresente, la navigazione è inarrestabile sulla rotta dell’amore: questi in definitiva i grandi temi della poesia della Martufi, intorno ai quali si avvitano segni, dialoghi, ponti, mentre il viaggio del poeta diventa sempre di più il viaggio di Ulisse e l’attesa è quella di Penelope, di una ricongiunzione, che è riconciliazione tra l’umano e il divino. Dalla lirica XXI in poi è tutto un gioco d’amore: l’amata si sente chiamare, ma fugge e si susseguono albe, tramonti e notti, tra ripensamenti e conflitti, nella vana e disperata ansia di rendere eterni il possesso e la vita, l’amore e l’amato.
E’ inevitabile che si affacci l’ombra della morte, minaccia perenne, contaminazione di precarietà, rispetto alla quale gli interrogativi si affollano, rimanendo senza risposta e lasciando l’amarezza di non poter mai riuscire a spiegare la perdita, né l’assenza della persona cara. Si muore senza sapere perché e le cose tutte finiscono senza che se ne comprenda la ragione. Così nella lirica “Sopravvenire” si effonde la malinconia intorno agli arcani che restano irrisolti, ma non meno malinconici sono gli accenti delle liriche in cui si affronta il tema del dolore, inevitabilmente congiunto a quello dell’amore, o comunque degli affetti vitali ( si legga ad esempio la lirica XXIV ove è accennata, ma intensamente, la perdita del padre).
I rimandi all’ Odissea e all’Iliade fanno da controcanto al dramma amoroso di Ulisse e Penelope e di Ettore e Andromaca. Si rinnova il rispecchiamento tra la forza della donna e la forza delle eroine mitiche, in una contemplazione senza fine del ciclo della vita la vita che è sole e luna, la vita che è vita di sole e luna e fiore, come dice il poeta.
A questo punto del poemetto si disegna l’Olimpo come utopia preferita degli uomini, nel loro sforzo di avvicinarsi agli Dei. Molte cose li accomunano, come la gelosia che può divenire odio e rivoltarsi contro l’essere amato, ne sono testimoni le figure di Medea e Giasone, inalterabili icone della furia e della vendetta amorosa.
Ormai tutti i tratti dell’amore sono stati attraversati nel libro e alla fine la poesia si popola di figure fiabesche, elfi e fate; in realtà è la stessa parola poetica che è giunta al termine della sua avventura e della sua fabula.
Fa testo la lirica XXXVII ove il poeta appare marinaio senza onda, la cui barca naviga sopra sospiri e l’amore è sempre la rotta e la meta, sebbene rimanga ignoto anche al termine del viaggio.
L’ansia di pace e di riposo e l’incertezza dell’approdo si esprimono sull’eco di memorie millenarie, di amplessi mai esauriti, di ricongiunzioni mai appagate. L’insidia della gelosia è ancora in agguato, ed è mistero ogni spostamento dell’essere amato, per cui l’anima assetata diviene esausta nell’attesa. Ma proprio in questo è la sua essenza, come avverte Jung che “se non realizziamo l’essenza che incarniamo, la vita è sprecata”.
Il libro, e quindi il viaggio, si chiude con un desiderio acutissimo di nascondersi al tutto, di essere protetti da un invisibile velo di oblio, come Enea fu protetto dal peplo bianco di Afrodite. Stupenda metafora di questo peplo di protezione è la neve che nell’ultima lirica, copre ogni cosa in un disincanto senza fine, la neve vista come “morbida impossibilità” che accarezza la vita.
La fabula si è conclusa, la parola ha terminato il suo iter a spirale, partendo dal remoto tempo del mito e attraversando la storia degli uomini, che è anche storia di eroi e di dei, nell’inappagata ma persistente ricerca di trovare se stessi, l’amore e nell’amore il proprio Dio.
Straordinaria avventura poetica di Silvia Martufi, approdata da lontani e iniziali abbrivi di poesia argomentata sul tempo e sulle stagioni della vita, ad una fabula ampia e complessa del viaggio dell’uomo.


ANNA MARIA VANALESTI

 Basilio Romano - 28/01/2010 23:17:00 [ leggi altri commenti di Basilio Romano » ]

Mi complimento con l’autrice.

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