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Atti di devozione

 

È possibile scrivere di un’opera di poesia a prescindere dalla conoscenza personale del suo autore, senza averne studiato ed approfondito l’esperienza di vita? A questa domanda Luigi Balocchi risponderebbe senz’altro che è la vita del poeta la chiave interpretativa necessaria per una corretta lettura dei suoi scritti e credo che nulla sia più vero nel caso del suo lavoro poetico, dove un autobiografismo – seppure mai esplicitato – serpeggia attraverso tutti i versi, sublimizzato in modo tale da non relegarlo ad esperienza strettamente personale – e quindi di scarso interesse poetico se tale rimanesse – ma materiale di effettiva condivisione con l’altro, dunque messaggio poetico.

Il Balocchi è poeta carnale, poeta dei sensi e non lo nasconde nei suoi versi dove termini come carne, corpo, pelle, sangue, gambe ricorrono più volte nei testi, quasi ossessivamente a voler ribadire che è attraverso l’esperienza del mondo che si può realmente viverlo, coglierne – ove possibile – un senso, o forse più sperabilmente una via di fuga. E il corpo è mani, piedi, cuore, fegato alla maniera di Feuerbach, ossia nella sua più autentica concretezza. Eppure questa immersione nel corpo, nella sua materialità anche più bieca e sotterranea, è quasi la pietra d’angolo necessaria ai fini di una sua redenzione, per consentire al corpo stesso di esperire la verità oltre di sé: in tal senso non credo azzardato considerare che “Atti di devozione” come titolo voglia alludere ad una poesia dello spirito nella sua assolutezza, quasi nell’accezione di aufhebungossia superamento ed integrazione indissolubile fra materiale e immateriale. Uno spirito dove la materia persiste come “rosa” e “grumo di dolore”al contempo (si veda la poesia in apertura) in una dicotomia indissolubile. “Atti di devozione” è quindi poesia che sa unire alla più concreta carnalità un linguaggio con influenze dalla mistica anche di matrice cristiana, dove la “bellezza verbo incarnato”è il disvelamento di un “Deus absconditusdove “Il sesso è una via di redenzione”.Altro termine – redenzione – che ricorre con una certa frequenza; in Aleisterviene associato a “fare l’amore”come espressione di “dissoluta libertà”perché, sembra voler dire l’autore, è quando l’uomo s’abbandona completamente all’esperienza del sesso, come stravolgimento dello schema razionale delle cose, che può sperare di attingere al nucleo primordiale di sé.

È in effetti la figura dell’ossimoro la più ricorrente nei versi di Balocchi, la percezione del mondo avviene per violenza di contrasti e si risolve nella semplicità di pochi gesti esatti, imponderabili come “carezza”o “bacio”, che ne sono la messa in atto, e quindi non è contradditorio che un poeta così carnale ripeta a più riprese la parola “amore”, che si pone sempre come valore assoluto di conoscenza del mondo. Eppure con la consapevolezza costante di quanto sia “profonda la ferocia dell’amore”. Si arriva addirittura a dire in Somniumche “Nulla è necessario, se non l’amore”. A dimostrazione di quest’amplificazione dell’ossimoro al fine della pregnanza poetica, del resto ben perseguita, si considerino ad esempio “splendida sevizia”, “ruina fulgens”, “etica pornografica”, “carnale santità”, ma si potrebbero moltiplicare le citazioni. Una poetica dunque essenziale, che vive per costruzioni cumulative attorno ad un unico centro propulsivo e aggregatore, sempre coerente in sé e per sé, forse bene riassunto dal trittico riportato in Incanto: “silenzio, rugiada, lussuria”.Non stridono quindi versi quasi agli antipodi fra di loro in uno stesso testo come avviene nel caso di Il Dio smembrato(titolo già di per sé quasi sacrilego) dove si legge a due versi di distanza “il cazzo tra i denti di chi ha fame” e “rito sacrale”,eppure l’equilibrio poetico tiene, grazie alla dirompente espressività del linguaggio, tanto che il testo si risolve nell’ultimo verso con lo “sperdimento dell’amore”.

Veicolare questi contenuti d’una concretezza decisa, ferrea ha portato l’autore a costruire una sua modalità espressiva particolare perseguita con coerenza in tutta l’opera. Si rifugge totalmente da qualunque schema metrico tradizionale, il verso libero spesso raggiunge lunghezze ben oltre le venti sillabe, senza però mai cadere nel prosastico grazie all’alta componente immaginifica ed allusiva, spesso espressionistica. Quasi sempre il verso corrisponde ad un pensiero compiuto e coincide con la misura del periodo; molti di questi periodi sono addirittura averbali, frammentari, con qualche ricordo di alcune modalità espressive caproniane o - per la forte paratassi - dell’espressionismo tedesco (in particolare Trakl). Si tratta quindi di una dizione icastica, essenziale fino al limite della scarnificazione, quasi a voler denudare il contenuto, scavarlo fino alle ossa.

È una modalità espressiva, quella di Balocchi, molto lontana da molta poesia nazionale, spesso legata pur non volendolo a formule e stilemi tradizionali (il vizio ad endecasillabare di cui ha parlato anche la Cavalli o la nostalgia dei nostri grandi); se compaiono lunghezze metriche consuete in Balocchi credo sia quasi un’anomalia statistica, anzi spesso sembra che il verso sia concepito proprio per evitarlo deliberatamente. Direi che il riferimento culturale più evidente, come è possibile intuire da alcune citazioni presenti anche nei titoli delle poesie, è quello di matrice anglosassone (si veda ad esempio il nesso ad Eliot in Ruina), forse qualche influsso anche da parte della beat generation ma edulcorato da certo eccesso che porterebbe questa poesia ad auto-atteggiarsi (e a tutto punta il Balocchi tranne che alla letterarietà, anzi deliberatamente osteggiata). Si intuisce in particolare una profonda conoscenza di certa letteratura di matrice irlandese, la rivendicazione a più riprese di una matrice celtica, pre-cristiana dove la conoscenza del sacro avviene per la via dei sensi dalla quale non si può abiurare (come in Versi:“Facevamo l’amore. / Ci siamo sbranati.”).

La parola per Balocchi deve emergere nella sua pregnanza, il discorso poetico procede sempre nella misura di pochi versi, a campeggiare è il bianco che crea riverbero all’enunciazione poetica sempre netta, categorica. La chiusa è spesso gnomica, senza voler essere apodittica, ma aprendo una breccia nel lettore, spingendolo all’interiorizzazione del messaggio. Una poesia che procede per provocazione del lettore (come non ricordare l’hypocritelecteur di Baudelaire?), scardinamento del codificato perché la poesia induca la crisi conoscitiva, la rottura salutare. Non a caso l’ultima poesia dell’opera è Il Matto, a ribadire che l’impresa della poesia è fuori dallo schema costituito e dunque eresia, e quindi si deve procedere per “cadute nel buco” e “morsi calci in culo” per un traguardo che tutto è fuorché rassicurante se “In fondo c’è il pozzo, nel pozzo le ossa”.

 

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