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Quella volta che…(l’attesa)

… le pizze, per le quali avevo optato, data l’ora ormai impossibile per preparare una cena a un orario decente per i nostri stomaci, non erano un granché anzi, mia figlia disse che facevano "palesemente schifo" ma io le risposi che tutte le cene portano a letto e domani è un altro giorno.

In effetti, quell’indomani, fu una splendida giornata di sole, caratteristica meteorologica che non giustifica, però, la qualità della giornata medesima.

Infatti, andai in ufficio nel pomeriggio, con un tarlo nella testa che tutti sappiamo essere un habitué delle teste di legno quale io sono: il kippah che portava in testa quel tale, venuto ieri a propormi un lavoro, non era forse un segno della presenza divina?

Forse con quel simbolo voleva dirmi che Dio era proprio lì, nel mio ufficio?

Se c’era il giorno prima, doveva per forza esserci ancora!

Così entrai nella stanza con un po’ di trepidazione quasi certa di trovare un segno visibile, tangibile, materiale della Sua presenza. Mi guardai intorno, scrutai ogni cosa meticolosamente ma niente trovai di cambiato, tranne il foglio lasciato sulla scrivania la sera prima sul quale avevo annotato i tempi e i costi della eventuale lavorazione da svolgere.

Delusa, ma ancora speranzosa, pensai che Dio potesse essere andato un attimo in bagno e, folgorata da questa pensata, mi precipitai a vedere, rimanendo nuovamente delusa nel trovare soltanto il mio cane che, avendo scambiato la tazza del cesso per un bar, si stava concedendo la sua solita bevuta post-passeggiata.

Abbozzai un sorrisetto storto, mi chinai per accarezzarlo e lui mi leccò la mano e mi posò una zampa sulla spalla come per farmi coraggio.

- Eh, – sospirai – ce ne vuole molto, sai? Ci vuole il coraggio di saper aspettare, proprio come fai tu che aspetti, un po’ triste ma paziente, dietro le porte chiuse, con il muso a terra! Si aspetta tutti qualcosa o qualcuno che a volte arriva ma più spesso no. –

Rientrai nell’ufficio chiudendo fuori il cane ad aspettarmi e mi sedetti alla scrivania rassicurandomi del fatto che Dio è invisibile e la certezza della Sua presenza altro non è che una sensazione, cioè ciò che si percepisce attraverso la stimolazione degli organi sensoriali. Quindi dedussi, esclusa la vista, che l’udito mi avrebbe dato la prova che stavo agognando. Mi soffermai per ascoltare, ma un silenzio quasi tombale mi avvolse come un mantello. Non si udiva il rumore dell’impianto di lavorazione, né il vociare delle operaie che non molto tempo prima, ma percepito in quel momento come remoto, lavoravano assiduamente tra un pettegolezzo, un brontolio, un litigio o una risata.

Mi detti una scrollata per togliermi quei pensieri di dosso, accesi il computer realizzando che il conto corrente aveva bisogno di portafoglio e ritenni che la cosa migliore da farsi subito fosse quella di preparare le fatture.

Elaborai, stampai e tirai il totale. Più che un portafoglio mi sembrò un borsellino!

Sollevai lo sguardo verso la finestra distolta dal rumore del treno appena passato e pensai che Dio se ne fosse appena andato da lì e questa volta per sempre.

Quella sera, prima di addormentarmi lo pregai. Lo pregai di darmi forza e coraggio nonché la pazienza dell’attesa che ha il mio cane.

 

 

 


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