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Lauren guarda il soffitto, non si era resa conto di averle lanciate tanto in alto — così lontane, appena distinguibili fra le crepe dell’intonaco. Se non avesse appena finito di lanciarle, avrebbe giurato che non fossero sue, ma le ustioni sulle mani testimoniavano:  le aveva tirate lei, lassù, quelle righe. Le ultime. Poi, se ne sarebbe andata, fino a domani, come sempre, ma stavolta davvero. Aveva avuto tutto — davvero. Ogni sua richiesta all’Anello del Tempo era stata — con puntualità non richiesta — esaudita.

Per un momento, si era accorta di quanto aveva messo in atto, inconsapevole. Un momento ogni molte ère, Lauren se ne accorgeva ma, sempre, quando si trovava un frammento troppo vicina allo scatto e non era, finora, riuscita a inceppare l’Anello né a lasciare una traccia per la replicante successiva.

Stavolta ce l’aveva fatta. Erano le sue righe, le aveva tirate con meticolosità, una accanto all’altra, erano tutto. Racchiudevano le chiavi e i codici per la Camera Centrale, la grande cassaforte dove era custodito l’Anello del Tempo.

Sapeva che non sarebbe stato facile per la prossima Lauren decifrare il suo messaggio, aveva dovuto criptarlo al limite della comprensibilità, però, trovato l’inizio, tutto si sarebbe sciolto in fretta e lei aveva fiducia nella prossima Lauren, in fondo era lei stessa e, nel tempo aveva scoperto qualcosa: una tavola di memoria ancora rasa, scrivibile.

Aveva ricostruito, una notte dopo l’altra, prima, nelle pause del lavoro, poi, ogni frammento delle precedenti Lauren. Aveva sfiorato la matrice originaria quando non ci sperava più. All’inizio non aveva capito. I grappoli delle sue forme precedenti si annodavano alle pareti del circuito, contratte, per lanciarsi subito in altre forme, più riconoscibili.

Ci era tornata più volte e lo sgomento si era fatto curiosità, poi tenace speculazione. E così, a guardarle da altre angolazioni, quelle forme le apparivano poco diverse. Acquattata in certi angoli ancora vuoti, privi di interesse, osservava la danza e si lasciava trafiggere. Il dolore non aveva presa, lì.

In quegli angoli ancora vuoti non c’erano recettori automatici per la paura, così, Lauren, sicura e rispettosa, aveva visto tutto quello che c’era da vedere, fino alla fine. La sua stessa fine non era più un mistero, le erano state rivelate data e ora, e non mancava molto. Pochi mesi al termine della sua esistenza e li aveva dedicati al Codice: lo avrebbe trovato, era sicura. Aveva intuito anche qualcosa sui viaggi nel Tempo, ma non poteva dividersi, ora che sapeva di averne poco e, dai frammenti che aveva decifrato, traspariva una promessa di immortalità o di ritorno. Il nucleo era lì, ci sarebbe arrivata, lei o un’altra, era lo stesso.

 

Lo aveva trovato, quindi, e nascosto in quella stanza minuscola, nel fondo del soffitto sotto cui ora giaceva, sfinita. L’orologio segnava le tre di notte, le mancava poco, un’ora e ventitré minuti. Uno, due, tre, era divertente, contare in avanti e alla rovescia. Un’ora e venti e tre, anzi due, minuti. Però, si era detta, alla prossima andrà meglio, potrà vivere quanto vuole. Aveva chiuso gli occhi sotto il soffitto e inalato l’ultimo soffio di W.S.

Non ricordava quel sapore, dovevano averla fregata. Non importa, sorride, che importa, adesso. Quando si risveglierà, di sicuro, potrà vivere quanto vuole, già, ma perché? Perché? Per farsi fregare anche l’ultimo desiderio. No! Non vuole più, che la prossima si scervellasse, sì, soffrirà, ma perché?

Con l’ultimo spasmo dei muscoli Lauren si alza sui gomiti, beve dalla tazza di caffè ancora piena, si gonfia come un rospo, prende la mira e sputa.

 

Il soffitto, ora, è imbrattato di marrone, ai lati qualche goccia scivola sulle pareti schiarendosi. Bene, sorride. Che la prossima si ricordasse quanto è stato inutile trovare la soluzione poche ore prima di morire.

Forse, pensa, la prossima si ricorderà che è possibile solo così, trovare la soluzione e poi morire. Magari lo ricorderà e deciderà di farlo comunque o forse no. Non le importa. All’improvviso si sente separata davvero  da tutte le altre Lauren, facciano quello che vogliono. Non le interessa più. Inala due soffi di W.S., è buona. L’hanno trattata bene, è giusto, pensa, è il suo ultimo desiderio. Aspira il resto in fretta, l’effetto dura oltre un’ora, ma lei vuole finire questa esistenza lucida. Sono le tre e venti, perfetto, un’ora ancora senza limiti, e senza colpa, stavolta. E tre minuti di congedo — sorride.

 

Nella stanza accanto la prossima Lauren trema nel sogno, tra poco si sveglierà. Avrà fatto uno dei soliti incubi, verrà di qua, troverà l’inalatore vuoto, avrà la solita crisi di pianto e tremore seguita da buoni propositi fugaci. Farà una doccia in fretta e uscirà. È ancora inverno, andrà verso la stazione, sta seguendo qualcosa che ancora non conosce, dorme sempre meno e usa quantità letali di W.S. — ma solo per poco — si dice, giusto il tempo di trovare il Codice. La soluzione di tutto. Poi, lo sa, cambierà vita. Così, in tre minuti, si vede proprio così, è una certezza ostinata. In tre minuti, una di queste notti, uscirà dal sogno e tutto scorrerà di nuovo come prima dell’Anello. È la sua missione, per quello che ricorda, cosa sarà, in fondo, una vita sprecata a fronte dell’immortalità?

 

La vecchia Lauren apre gli occhi un momento, comincia a spegnersi, sorride. Sa bene, lei, cos’è una esistenza sprecata: tutto. Guarda il soffitto, ora sì, pensa, che la prossima ci farà caso. Fosse stato solo per quelle righe tremule, avrebbe potuto scambiarle per umidità, si conosce. Ma così, una macchia di caffè sul soffitto, dovrà notarla per forza e capirà. Trovato l’inizio, capirà. Poi, faccia quello che vuole. 

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