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Contaminazioni

Foglie appassite

si disperdono nei viali

 

   l’alone dei lampioni

   sommerge la marea

 

stagno di cenere:

una città risorge

 

   cercava nei suoi occhi

   all’alba di un esilio

 

verbo

parola

una lingua necessaria

 

   seguo un’origine

   senza creazione

   frammenti che declinano

   su placide maree

 

vieni

sciogli i tuoi capelli

è da te che si consuma

l’immagine riflessa

 

   è un senso che redime

   un’arte condivisa

   l’idillio che si eclissa

   l’enigma dei padri

 

avete capito?

quello che ci chiedono

è di guarire in fretta

 

   va bene, ve lo dico

   era un uomo religioso:

   stampe d’epoca e

   stivali da guerra

 

ma tu non credi

tu ti ribelli

tu ti rivedi

alla fine di qualcosa

 

   acqua ferrosa

   la torbida visione

   un attaccamento taciuto

   al primo rivelarsi

 

ma tu

eri libero

mentre lo facevi?

 

 Fabrizio Giulietti - 21/06/2023 12:06:00 [ leggi altri commenti di Fabrizio Giulietti » ]

è prorpio come scrivi, infatti... altro che scusa, sono io che sprofondo quando mi visiti e commenti... grazie, grazie sempre di cuore... un abbraccio

 Annalisa Scialpi - 21/06/2023 09:46:00 [ leggi altri commenti di Annalisa Scialpi » ]




Carissimo, scusa se mi permetto ma, quando ho letto questa

poesia sono letteralmente sprofondata in ’stagno di cenere/

una città risorge’. Dopo questi versi, ho sentito che la poesia

era magnificamente chiusa, perchè potente la profezia, per

proseguire. Potente in relazione con le immagini precedenti,

altrettanto forti. Grazie per questi versi.

Annalisa

 Salvatore Pizzo - 04/11/2021 03:32:00 [ leggi altri commenti di Salvatore Pizzo » ]

"stagno di cenere:

una città risorge"

Bellissimi versi, ancor più fantastica l’immagine che suggeriscono.
Ciao

 Darlene - 01/11/2021 10:55:00 [ leggi altri commenti di Darlene » ]

L’attraversamento dell’esistenza nelle sue proiezioni più intime e indefinite, il ricorso a una scrittura dalla regia pulita, ben condotta, con una scelta del verso breve che meglio restituisce l’assenza di lirismo dell’opera. Un percorso che scorre onirico e visionario fino a una chiusa spiazzante, che capovolge le premesse stesse del testo. I primi distici sono descrittivi del senso ampio di tutta la poesia. La città che risorge potrebbe relazionarsi a luoghi ed esperienze di un tempo ormai remoto. C’è poi la parola, mezzo di fuga ma anche «verbo» e «lingua necessaria» di chi non crede ad un senso compiuto delle cose. Subentra, quindi, un sentimento profondo di «arte condivisa», passaggio di consegna generazionale e sincera ammissione di «un attaccamento taciuto al primo rivelarsi». Nelle «placide maree» si ravvisano invece riferimenti a forme di semplicità legate alla purezza del non sapere, non conoscere, in quel gioco di influenze che ci rende simili alla natura che ciclicamente muore, rinasce e si rigenera. Ma la contaminazione è anche inconscio millenario, origine che nega razionalmente una creazione, uomo attanagliato da anima e materia. Ci viene chiesto «di guarire in fretta», in una successione incalzante di immagini dove la figura retorica di un individuo religioso, certamente colto ma con «stivali da guerra», ci trascina nel precipizio finale. Non si crede più, ci si ribella, si avverte imminente la «fine di qualcosa». In un «tu», probabilmente idealizzato, la scenografia viene alterata da visoni torbide come «acqua ferrosa». Occorre allora tornare indietro, a quell’«alone dei lampioni», lì, dove i frammenti declinano e le parole si disperdono. Il principio era la fine, la libertà non esiste.

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