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al testo di Giorgio Mancinelli
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Lezioni di Tenebra / 1 Mavruz in me - Il lato oscuro. Avvertenza: Se non volete mettere a repentaglio la vostra integrità morale e psichica non leggete questo racconto in cui potreste scoprire qualcosa di ‘voi stessi’ che non vi piacerà, dacché: “L’incontro con l’ombra, quella parte di noi chiusa nelle segrete dell’inconscio, è un’esperienza sempre pericolosa, alternante, dove le parti nascoste, oscure, violente e disdicevoli si manifestano per essere finalmente ascoltate e integrate nella coscienza”. (*) Il tratto nero del carboncino scorre rapido nel tracciare il grafico perimetrale dell’immensa costruzione che si presenta ardita rasentando i margini del foglio bianco, quasi fosse quello il limite imperscrutabile oltre il quale l’immaginario s’apre allo spazio esteso all’infinito, aprendo a un non-luogo estremo attraversato da migrazioni d’idee mirabilmente pensate a infrastrutture smisurate, benché solo apparenti, appena intraviste nell’ottica di un caleidoscopio in bianco-nero. L’unica nota di colore, una macchia rosso sangue che improvvisa s’impone all’attenzione, come di ferita che non coagula e si ravviva costante deturpando l’immagine onirica di una magione che si profila nell’intenso biancore incombente del foglio, che pur si cela alla vista dei possibili sguardi indagatori di chiunque brami irrompere nell’antro buio delle sue mura, che tutto nasconde e protende verso l’oblio. L’ampio edificio idealmente progettato e mai ultimato, manca di successione di piani e di muri divisori che pur si combinano alla vista per effetto d’insieme, rimandando a invisibili pareti contratte, a prospettive irrisolte, a sottoscala bui che non vedranno mai la luce, a soffitte che inutilmente respireranno l’afflato dell’etere. L’unica porta d’accesso è tratteggiata appena, intenzionalmente sprangata affinché nessuno possa mai oltrepassarne la soglia, dissimulata com'è agli sguardi indiscreti da un oscuro volere che non prevede intromissione alcuna. Ciò nonostante avviene che il vento di tanto in tanto la sfiori, quasi a raccogliere l’affannoso respiro che pur s’ode attraverso i graffi profondi scavati nel legno massiccio d’antica quercia secolare, come di profondo sospiro d’indubbia esistenza che si consuma all’interno e incute timore a chi seppure casualmente vi porga l’orecchio, tale da lasciar presagire qualcosa di funesto che incombe nel fitto mistero d’una incessante attesa, l’acre alitare di un’ombra che indugia nel pieno congiungimento di ciò che non è morte, di ciò che ancora è vita. È nel desiderio avito di chi vi abita ripulire ogni traccia di vissuto, cancellare i segni d’una umanità pregressa, interiorizzata di un ethos consacrata all’apparenza fantasmatica della propria vulnerabile presenza; dacché, l’esperienza notturna di un pensiero nefasto che rivela l’indefinito albale all’origine della parola indicibile che pur s’accende di poetico afflato. Sì che il risuono di sillaba si dilata come per un grido fra punto di partenza e divenire, che nel buio incute alla luce un risveglio improvviso, febbrile e ostinato, impercettibile ai sensi, all’intimità dell’essere che nell’oscurità s’avanza: uno scalpiccio affrettato di passi che si avvicinano, per poi allontanarsi e farsi di nuovo rasenti, successivi a una ineludibile pausa di silenzio … «Mavruz, sei tu?» «Chi altro se non io, Mavruz chiuso in me stesso, il servitore ascoso che mai riposa, e che risponde al Sé immaginario che è del mio Signore.» «Mavruz cane, dove ti sei cacciato, metti dell’altra legna sul fuoco, fai in fretta, ho freddo», la sua voce s’impone veemente, accompagnata dal gesto levato della mano furente che sempre l’accompagna nel dire … «Vengo, vengo!» Rispondo al richiamo vibrante del mio arcigno Signore che regna incontrastato in questa austera magione in rovina, prima ancora del suo conseguimento, dacché l'ambiguità del vuoto inganna ogni mio possibile movimento. Mavruz son io, colui che vigila costante affinché il fuoco perennemente acceso non venga a spegnersi nell’ampio camino intrappolato nella parete, onde riscaldare la lunga e fredda notte che incombe sul suo e sul mio destino, che, se per un verso porta all’annullamento dello spazio interstiziale dell'uno, dall’altro contribuisce alla sopravvivenza di entrambi … «Maaaavruz!», leva più alta la voce il mio Signore. «Vengo, vengo!» Arrivo calcando uno alla volta i riquadri che rivestono il simulato pavimento della stanza in cui il mio Signore dimora. A passo alterno trascino lento i piedi negli spazi di luce e d’ombra, come per una partita a scacchi, onde sottrarmi ora nel riquadro scuro del buio, ora all’abbaglio di luce dei riquadri più chiari, sì da far credere ch’io stia arrivando da chissà quale distanza, ancorché sia qui da sempre, accanto al suo capezzale d’infermo che scolora … «Mavruz che tu sia maledetto, dove sei malevolo fannullone, che cosa mai vai facendo, non senti il freddo che avanza, metti dell’altra legna sul fuoco, te l’ordino!» Sono qui, dov’altro mio Signore, Mavruz chiuso in me stesso, il dissoluto compagno di sbronze, ubriaco da sempre, che l’ombra infrange con la propria logora figura contro la fiamma contorta tornata ad ardere nel camino. Cos’altro potrei, impossibile non ascoltare i suoi richiami, le sue tiranniche pronunciazioni di despota, gli atroci misfatti che va perpetrando, quasi a volerne estirpare la colpa, per poi accusare me di qualcosa di sbagliato ch’è in lui … «Mavruz, cane figlio di cane, dove sei?» Sono qui mio Signore, penso ma non rispondo, Mavruz chiuso in me stesso, celato dietro un’assenza che finora mi concede una qualche sovrumana chiarezza d’intelletto, cui in verità anelo in divenire per una sollecitazione dell’anima mia. Colui al quale non importa restare in perenne attesa di qualcosa che stenta ad accadere, che se viceversa accadesse, metterebbe in pericolo la sua quanto la mia stessa incolumità. Quandanche io pur desideri cancellare i segni d’una umanità ch’è stata, di far piazza pulita delle tracce di un vissuto artato e assumere l’apparenza fantasmatica che mi distingue. Onde sottrarmi alla vita che mi si concede o fuggire da essa, assumerebbe un ethos significativo diverso, che il solo passare da un riquadro all’altro della pavimentazione candida la mia separazione dall’irrealtà del buio più nero all’avere accesso al bianco etereo della luce, quel non-luogo ove si contempla l’avvenuta inconfutabile esteriorizzazione di ciò che in fondo sono, quell’Io incompiuto e non omologato, Mavruz, solo con me stesso … «Maaaaavruzzzzz! Dove sei cane rabbioso?» Impossibile cercare una via di fuga nella costante sensazione di vuoto ipotetico che nel momento dello sconforto mi soggioga, per quanto sia messo di fronte all’assoluto vivo nell’irrealtà impalpabile che rasenta l’irrisolutezza della mia stessa esistenza. Dacché ogni singola idea inespressa, ogni strada intentata dal mio Signore, diventa per me visione irreversibile di un Sé ingigantito a dismisura che mi spinge all’abnegazione, a quello stato d’incoscienza che a lungo andare è portatore d’insana follia. Non v’è in me sufficiente determinazione capace di riedificare sopra le macerie di quanto andrebbe definitivamente demolito, o forse, più semplicemente can-cel-la-to di un disegno d'insieme concepito e mai realizzato appieno per una incoerenza di status giuridico per me avulso dall’essere tracciato. Quand'anche lo si voglia immaginare rimane un non-luogo avulso dal completamento di siffatta edificazione. Non basterebbe un solo foglio inviolato, bensì ideare l’estensione di un vasto terreno edificabile, onde partendo dall’interrato si andrebbe a posizionare la pietra-lata su cui fondare l’ardita costruzione, o forse, ricominciare il tutto con altro inchiostro che non sia nero … «Mavruz, che tu sia maledetto, dove ti sei cacciato?» Faccio orecchie da mercante nel mentre la mano riprende a scorrere sul foglio che senza intralcio alcuno ricalca la struttura originaria dell’immaginifico edificio entro un perimetro più ampio, riposizionando l’intero assetto della magione-cattedrale-castello che il mio Signore ha scelto di abitare per sua ascosa dimora, sebbene il nuovo porti alla dissoluzione del superfluo e del sovra-strutturato partoriti dalla sua mente obliqua. Ancor più adduco allo stallo, di risollevare i pilastri portanti, sostenere i costoloni possenti che spingono in altezza le navate, istituire gli alti spalti delle torri merlate, i poderosi bastioni; nonché ricollocare al loro posto, se mai ne abbiano avuto uno, gli architravi che delimitano i piani nobili, spalancando le travature delle volte a vista, riedificando i divisori invisibili, gli spazi inesistenti, fornendo all’insieme di un sottotetto, le coperture dissimulate dei solai, aprendo abbaini da cui scrutare il cielo … «Mavruz, malaugurato te, hai preparato la mia vestizione?» «Eseguo mio Signore, il tempo di…» Già, dimenticavo, s’avvicina l’ora di levarsi, al mio Signore piace indossare ogni volta un veste diversa, che sia il mantello regale o la zimarra d’avvocato, l’abito talare o la cappa del giudice, spesso s’invaghisce di sporcarsi la faccia e mettersi sul viso la maschera asservita al suo logoro opportunismo di despota, e solo perché non riesce a soggiogare gli angeli idolatri e i demoni del male di cui sente il respiro alitargli sul collo, che gli provoca un brivido di gelo lungo la schiena e negli inconfessati anfratti della sua anima nera. E mentre il calore sprigionato dalla fiamma torna a ravvivarsi nel camino illuminando ogni cosa presente nella stanza e s’appresta a raggiungerlo, lo trova così stanco che un attimo dopo è di nuovo assopito, per quanto la sua mente allertata dei suoi costrutti giammai riposa. Non invano la luce rossa di fuoco proietta sulle pareti immagini di nobili appartenenze obliate, i volti rugosi di predecessori estinti, una pinacoteca di morti, un inutile agitarsi di fantasmi che non conoscono pace, che in ogni dove scorrono logori epitaffi mai scritti che presto tramutano in rivoli d’inchiostro rosso come di sangue versato. Più in là nella stanza, sopra un tavolaccio in ombra, avvolge ciotole e pennelli posati alla rinfusa a sollevare ricordi d’ingenue scaramucce con la tela; bandiere sparse di vecchie guerre o forse giochi appese alle pareti si scontrano con mute statuette d’ebano d’altri continenti, ninnoli impolverati d’infantile memoria, strumenti musicali senza corde che giacciono abbandonati, archetti obliati sopra spartiti ricolmi di note incerte, tenute prigioniere in pentagrammi dissolti. Alle pareti, sospesi candelabri reggono smunte candele di notturne lotte con le tenebre, presenti in ogni angolo, ove l’arido sguardo accumula polvere dove più ce n’è, quale scoria del tempo che si stacca dagli intonaci fioriti, dalle crepe interstiziali degli archivolti edificati nella dura pietra, che pur si sgretola al solo guardarla, dove l’Io immobile si fa oggetto fra i lemmi spesi senza senso, il cui inchiostro essiccato ha vergato frasi che risuonano ancora nell’aria qual eco di morte, inutilizzabili altrove. Non rimane che un battito di solitudine a colmare il vuoto dell’ampia stanza ove il mio Signore giace schiacciato al suolo, provato da rimembranze di secoli passati che incalzano nel divenire… «Mavruz, Mavruz…», sospira il mio Signore. Non l’ascolto. Sì che neppure il copista scaltro qual io sono nel riciclare idee e concetti levigati dall’uso, riesce a pronunciare sull’altare di talune sue falsità, pur aderendo alle fuggevoli istanze degli spiriti notturni che avvalendosi dell’errore divino, inevitabile quanto eccessivo, sostengono di confinare l’altrui destino dentro un senso di colpa assoluto, durevole e costante, che mette a repentaglio l’integrità morale e psichica dei fantasmi che siamo, sopravvissuti al tempo. Si dovrebbe risalire la corrente d’ogni fiume navigato, l’estensione d’ogni mare attraversato, ritrovare le ragioni represse dalla mente, rivedere le allocuzioni, le esortazioni, le arringhe; superare le lacune del nero, riconoscere le mescolanze dei colori, gli amalgami di luce, le misture arcane dei veleni; così come lasciar scorrere limpido il flusso ininterrotto dei segni e dei simboli astrologici che con grande pazienza il mio Signore tiene racchiusi nel labirinto della sua infinita incoscienza, del suo discernimento frutto di quella scienza ermetica che solo un alchemico della sua stazza, o forse quel negromante di Athanasios Kircher saprebbe decrittare, permettendo così all’infelicità umana di svincolarsi dall’ingranaggio virtuale del destino morale che la sovrasta … «Mavruz, di quali assurdi propositi vai ottenebrando la tua mente?» Nondimeno è proprio dell’infelicità umana che il mio Signore si nutre, incitando gli accadimenti più neri della sua perseverante infingardìa. Una rete di misfatti e d’orrori di cui egli soltanto detiene l’accesso, sì da rendere impossibile lo svelamento del mistero in cui egli si cela e che lo preserva da chi vorrebbe addentrarsi nel labirinto della sua mente nefasta, che errando cerca “di stabilire un ponte, una connessione possibile tra il suo pensiero e la sua esistenza”. Mentre la macchia di rosso sangue versata sull’altare dell’innocenza del suo inenarrabile egocentrismo, persevera, si estende, si ravviva e agghiaccia, e men che mai permette ad alcuno di apprendere l’universale oggettiva verità che la sola presa coscienza della morte impone … «Finis nusquam, Mavruz, finis…», sussurra con voce spezzata, mentre tossisce ed espettora fiele senza ritegno. In nessun altro luogo la fiamma diabolica che fa ardere la sua anima potrà mai essere spenta, che il ceppo corroso dei secoli non si è ancora esaurito del tutto, né la sua avidità adultera. Non qui dunque. Chi sono io, se mai sia qualcuno, a dover biasimare l’operato del Signore che mi comanda? Chi se non colui che ripone in seno all’erudizione colta, gli elementi e i simboli ermetici secretati di colui che li detiene? «Mavruz infame, hai preparato la mia veste cardinalizia?» «Sì mio Signore, è qui pronta per essere indossata.» «E allora muoviti, appronta la mia vestizione.» «Mio Signore, non è ancora l’ora di cena, è presto per ricevere gli invitati al suo desco.» «Chi lo dispone, neppure l’orologio comanda le sue lancette, chi sei tu per decidere il passare del tempo?» Son io Mavruz, chiuso in me stesso, il ministro oscuro, colui che detiene le chiavi delle segrete stanze ove giacciono rinchiuse in polverosi tomi le sbiadite immagini esoteriche dell’antica ‘biblioteca astronomica del tempo’ ricolme di affabulazioni consunte. Soffoca l’aria di capoversi, di virgole e punti come d’aculei aguzzi, di spregevoli vuoti senza senso e velenosi accenti, tutte quelle frasi oscene che mi riserva e che non oso ripetere. Son io, che di volta in volta raccolgo senza misericordia le assi schiantate delle librerie sotto il peso delle istanze che finiscono per ardere nel camino, che alimentano il fuoco che mai cessa di ardere nel crepitare informe dei vecchi libri sapienziali … «Mavruz si può sapere che cosa bofonchi, c’è forse qualcuno con te?» Nessuno mio Signore. Son io, Mavruz chiuso in me stesso, il molosso dalla mascella poderosa che attende nell’ombra, pronto a frantumare le ossa di chi osa avvicinarsi a questa magione invasa da spettri, e che vigila davanti la porta affinché le urla dell’umanità corrotta dal perbenismo, da quel buonismo che vorrebbe pervertita, depravata, affinché non disturbino il sonno ascetico del mio Signore, da cui l’afflato malevolo ch’egli conduce seco nel sonno arroventato di tenebra … «Mavruz dove sei? Or dunque sei tu, l’infedele che avanza!» Son io, Mavruz, chiuso in me stesso, l’architetto malevolo che tutto avalla dei suoi comandi Signore, che la sua voce terribile e nefanda il respiro affanna, anfitrione di se stesso, a decidere i cambiamenti da apportare all’originaria struttura di questa irrisolta magione. Finanche di cancellare ogni possibile accesso che si delinea sulla pianta perimetrale, come quell’unica porta da sempre sbarrata. È dunque una logica spuria di luce quella dell’esperienza del passato che ritorna, e che vedrebbe can-cel-la-re questo arcano feudo di sale; per quanto ancora illumini quell’unico abbaino aperto sul nulla a designare un isolato punto sospeso, di riferimento e richiamo nel biancore del foglio, pur destinato a restare visibile, qual zona franca che s’impone al passare inesorabile del tempo dell’attesa. Come in nessun altro luogo, le lame affilate e taglienti del suo vetro infranto attentano l’incolumità di chiunque si arrischi a entrare nella tenebrosa oscurità di questa magione, senza che venga fatto a pezzi dalla malvagità sovrana del mio Signore, che mai si taccia … «Sei tu, Mavruz, perverso infame?» Chi altro se non io, Mavruz chiuso in me stesso, il filosofo del residuale, che imprime al nucleo orrifico della sua mente “…il fascino irriguardoso e contiguo dell’animalità, l’aggressività e la virulenza animale che riemerge nella passione umana”, e non avalla che l’anima morale riversi il proprio afflato sul suo male, per quanto in me parli la voce della ragione, tutto ciò che qui appare partecipa di una contiguità passionale che da sempre il mio Signore intrattiene con la sua natura mefistofelica, che la sola presenza dell’anima ancora sopravvive alla sua figura corporea in costante attesa di luce che la illumini. No, egli non sa, quand’anche questo ricongiungimento accada, che ciò segnerebbe la sua dissoluzione, pur nella pienezza della luce raggiunta … «Mavruz villico infame, non senti il vociare di quanti chiedono d’essere ammessi al mio cospetto?» «Vado sì, che già i suoi pensieri danno luogo a costrutti impossibili ricolmi di malvagie intenzioni.» «Maaaavruz affretta quel passo stentato che insegui, da quel bastardo infame che sei, vai loro incontro e accogli benevolo quanti vengono ad abbeverarsi al mio desco.» «Vado, che almeno mi si dia il tempo.» «Mavruz, dove sei?» Eccomi mio Signore, son io Mavruz, chiuso in me stesso, il cane ubbidiente e ringhioso che va ad accogliere chi non dovrebbe disturbare il mio Signore a quest’ora, in questa gelida notte d’inverno, che forse non sa ch’Egli è ombra che divora, fatto della stessa materia gassosa della nuvolaglia che passa e che va, come l’essenza aeriforme delle sue azioni da non considerare veritiera testimonianza di autentici accadimenti, in quanto essendo soltanto narrati inseguono un ipotetico passato che ritorna, frutto di un’attesa prolungata all’infinito senza domani, e che pure s’appressa, quale emorragia del tempo attuale che non conosce luogo dove andare, se non in quel non-luogo dove non arriva nessuno, perché invero non si aspetta nessuno. In cui tutto ciò che accade trova posto solo nella mente del mio Signore, nell’immaginario del suo mondo assoluto, estremo, dove mai nulla accade, dove ad ogni battaglia vinta ne corrisponde una persa, in cui nessuno davvero perisce né sopravvive alcuno … Per quanto sia io Mavruz dall’impietoso destino, chiuso in me stesso, il carceriere amoroso e spietato della sua impudicizia; colui che gioisce della subita pena e segretamente gode della creatura sciagurata ch’io sono. Sebbene ciò che più mi preoccupa del mio dannato Signore è il suo trasformare in fobie ossessive tutto ciò ch’è di spettanza al buio, ai sogni arroventati dalla fiamma, alle allucinazioni più nere; a quegli incubi procreatori di fantasmi che riempiono le sue e le mie notti insonni, scarabocchiate su centinaia di papiri sparsi che immancabilmente finiscono sul virtuale impiantito delle sue elucubrazioni… «Mavruz sei tu, fai presto, raccogli quel ch’è rimasto dei loro umani escrementi sul pavimento?» Son io, Mavruz, chiuso in me stesso, per quanto non posso restare confinato nell’alveo oscuro della sua mente in eterno, mi chiedo quando mi capiterà che uno sguardo benevolo giunga a me attraverso l’intercapedine dei muri di questa magione che mi tiene prigioniero, sperando alquanto incerto che il suo segreto che non può essere svelato, infine diverrà manifesto. Mi astengo dall’andare oltre nel parlare, se in fine vengono a mancarmi le parole davanti al suo continuo dettare sconcezze malevole in una lingua che non è la mia, fatta di oscuri ritorni, di richiami al mito, di simboli di un’arte occulta e incomprensibile. Pagine su pagine da riempire tomi di crimini orrendi, ispirati per lo più dalla bieca religione ch’egli professa, e che lo spinge all’adorazione sacrificale di divinità mostruose che presidiano i cancelli dei cimiteri e le porte degli inferi, esigendo tributi di sangue … «Mavruz sei tu dunque la serpe velenosa che porto in seno.» Son io, chi altro, se non Mavruz, chiuso in me stesso, il despota incontenibile che abita il lato oscuro di questa estrema magione. Colui che non conosce il passato né il tempo che verrà, ma solo il presente, che non si fa scrupolo della inviolabile attesa che qui si professa aspettando che si compia il destino. E sarà l’ultima notte, quella definitiva, sarà come andare incontro alla disgrazia fatale che ha visto gli angeli ribelli cadere davanti alla lesa maestà, contro la falsa innocenza del mio spietato Signore. Colui che nella diatriba immutata e costante contro l’umanità ha decretato la sua miserevole colpa, senza possibilità di riscatto. Questo sono io, Mavruz, chiuso in me stesso, che nulla può il mio chiedere senza il volere altrui, che l’infelicità e la colpa preposte sono ciò che concerne all’ordine demoniaco del mio Signore, i cui statuti giudiziali regolano le relazioni tra gli uomini di qualunque grado e ceto con l’infrangere le pareti astruse dell’ego, bensì lo riesumano dal profondo abisso dov’Egli pur s’inginocchia al cospetto di un’altrui volontà … «Sssst! ora mi taccio, che il mio Signore si è di nuovo assopito.» Or ché sia l’alba o il tramonto, nelle ore in cui apparenti striature scarlatte, quasi violacee, si distendono lineari e piane sul foglio bianco, resto in attesa dei sogni adombrandoli d’ombre tenebrose con le quali gioca la tirannia del mio Signore al dominio delle cose, approfitto del buio fittizio che precede l’alba, onde cancellare i fantasmi che al suo richiamo aprono trabocchetti d’infime manie d’ambizione; così le torri audaci cedenti a impalcature di cui si serve a tenere forche aggettanti a distanza, in quanto visione di penzolanti ideali cosparsi d’egoismo … «Mavruz! Mavruz, non senti che stanno bussando alla porta?», chiede astioso il mio Signore. «È il vento», rispondo, quando, ascesa forzata d’intimo volere il mio Signore sospira. «Serenità impiccatela! Tranquillità è già stata impiccata!», sono parole non mie che ripetono l’urla spaventose che fuoriescono dalle labbra del mio Signore ogni qual volta s’abbandona alla contemplazione delle cose astratte e che riecheggiano sulle inesistenti pareti dei saloni immensi, colmi di vuoto, in cui s’ode di tanto in tanto qualche scricchiolio di travi, forse s’abbattono porte in solaio. Destreggiato di vento gira un arcolaio, filatura di vita arde senza posa nel camino, avanza sul pavimento, avvolge i soffitti, cristalli di candelabri immaginari s’offuscano, nere candele di sego dileguano in fumo, allorché carbonizzato il ceppo contorto, esaurisce a vita … Ideali solidificati a crinature di vetro, stalattiti negli occhi stanchi scrutano costruzioni impossibili del Sé immaginario, come di Maestà assisa sul ‘trono del nulla’ che trascina con sé un destino non suo. Visioni di rocche poderose, di mura insormontabili, ove cavalieri armati fedeli all’ambizione, tengono una battaglia antica in difesa di un feudo di sale … «Mavruz, la mia investitura! I miei ori! Le mie armi!» «Mah … Signore?» Chiudo orecchie a non sentire, che già orda mercenaria chiamata a raduno, occupa la rocca più alta. Sopra le spalle l’alto monte della sua testa coronata, cristalli azzurri degli occhi a infrangersi, folti steli biondi e neri tramano ragnatele, invadono scale porte finestre, quale ponte levatoio sul fossato rigurgitante d’avida sete. Sua Maestà, il mio Signore, è solo, intento a sbranare necessari vassalli incatenati cui nessuno accorre in difesa, nessuno si leva a tutela dei loro costrutti. Sua Maestà inghiotte carogne morte d’inedia … «Evviva sua Maestà, evviva!» Suoni di trombe e tamburi, alla rocca s’ammaina la bandiera, della pace, nel mentre s’alza terribile quella macchiata di sangue. Orda feroce esce e scorrazza, urla implacabili di sua Maestà: “uccideteli tutti!”. Altre rocche, altre carogne, non leale battaglia sul campo, ma distruzione, stupro, violenza, l’orda selvaggia abbatte torri d’ideali, rocche d’infinita speranza, calpesta germi di spiriti eletti il tiranno … «Ohhhhhh! Aaaah!», ride tracotante sua Maestà, con le mani insozzate di sangue, fa il giro dei saloni vuoti, specchi d’argento macchiati d’infima fede, lacera carni a brandelli, alla finestra i cristalli azzurri degli occhi s’infrangono di pura follia. Saziata l’arsura di sangue, quinto elemento il ‘tiranno potere’, sua Maestà s’affaccia, leva alta la voce. Orda malvagia chiamata a raduno, libidine al cervello lo acclama … «Evviva sua Maestà. Evviva!» Quest’io re, quest’io nullità, che l’ambizione trova terreno fertile per l’inquietudine, l’accanimento, la concitazione, a voler rincorrere al vento fuggevoli ideali di supremazia, entusiastica spinta in avanti, arti schiene criniere di bianchi cavalli spronati alla corsa. Gioco di fili a tendere a cavalieri, esploratori dell’infinito universo, di matematiche sfere a me sconosciute, arpa a canto ambizioso tendo: ‘A te che ti proclami ambizioso, spronato a tutto, a sventolare bandiere pronto sul campo, sopra ogni campo di battaglia, a urlare il tuo grido: Avanti! Avanti! A conquista avanza a conquista indietreggia, vinto a vincitore, guerriero di me, maschera e istrione, a inseguire cavallo impavido impazzito di vento, il crine all’aura e zoccoli alla terra, a narici avida schiuma, al petto battito irrompente ambizione, lascia questa terra negletta alla sopravvivenza degli spirti celesti… «Avanti! Avanti!», esclama nel sogno avito il mio malvagio Signore. Cavalli pazzi, guerrieri straordinari senza posa, pupazzi della mia ragione guerreggiano nel gioco di luci e ombre della stanza vuota, fra le coperte del letto, a sventolare bandiere stravaganti per una guerra a morte di nobili cavalieri. S’armano i difensori del grande castello del cielo, che fortissima luce balena di scudi d’elmi e di spade, acuti vertici nel complesso concerto, l’orchestra al completo coi suoi migliori strumentisti, solleva ansia al coro. Scalpitano alla piana, cavalieri impavidi su furenti destrieri a briglia tenuti, a forza tendono, muovono pareti d’universo, cedono al vinto, castelli di nero fumo. A cento a mille le torri crollate, ferma a bufera, spalancate muraglie del giorno, di rosso sangue la piana riposa. Allorché placata l’ira iniziale, il vento riporta a primiere note. Posa il coro compenetrato a silenzio, resta a sussultare il vento, maestri a spezzati archi, pausa … la ripresa segna sferzanti echi d’urla levate inneggianti vittoria, e già il vinto declina sul fianco, la battaglia è perduta, mentre il giorno lentamente muore … «Mavruz! Mavruz! dove sei miserabile?», grida il mio Signore, colpito da malore che già stramazza a terra. L’Io che rimane, nulla può, ciò che avrebbe voluto: ‘utopia’. Uno a uno, e più forse, cedono gli ideali come giganti di carta inevitabilmente caduti, calpestio di piedi e d’armi nel fango, morti a battaglia. Quando, sollevati i giganti per chimera, lottano coi giganti di chissà quale altra guerra, e ora vincono, e ora, sprofondano sotterra. Quand’ecco sorgono altre rocche, altre cedono l’una dopo l’altra senza posa, nulla ormai resta della primiera magione-fortezza, nel mentre, abbandonato sul campo, lascio giacere il guerriero qual sono, dissanguato e stanco, tuttavia mai reso. Dove mai troveranno sepoltura quei tanti eroi caduti con onore e senza pace? Su quale terra sconsacrata dovrò affondare la vanga per una fossa comune che non potrà mai contenerli tutti? Un’altra guerra persa, ma per chimera nulla può quest’io Re, resta inamovibile al fato, a occhi aperti e vivi, come morto sul sagrato della sua magione-cattedrale. Sulla carta graffiati a pennino, neri d’inchiostro, i disegni miei avulsi dal mio Signore, sono rifugio arcano di complicati arabeschi di luce, benché trasparenti nel segreto diario del destino, separati dai sogni, ove giorni d’oro e di smalto incastonati come tessere di un mosaico di vita, mi dico, non s’incastreranno mai … «Mavruz, dove ti nascondi in questa profonda notte di tenebre, fa ch’io ti scorga e vedrai.» Son qui mio Signore, io Mavruz, solo con me stesso, colui che hai voluto che fossi, architetto ingegnoso a sospendere castelli di nubi a immaginare ponti d’inerzia per una disfatta al tempo che tutto nega e tutto contrasta. Quel tuo non essere son io mio Signore, costruttore intraprendente che innalza strutture impossibili, onde fermare l’attesa, al riparo dei muri possenti di questo castello di carte che mi sta crollando addosso, come presto accadrà, fintanto che la masnada degli insospettabili risorgeranno impavidi e si presenteranno a rendere l’obolo dovuto, davanti alla porta di questa prigione-cattedrale-castello che abbiamo reso sì maestosa e regale onde ossequiare il mio immaginifico Signore, certo che presto accadrà, anche se nulla potrà mai accadere. «Dove sei, figlio di incerta madre che non sia una cagna, perché non ti vedo?» Sono qui mio Signore, ascoso nel buio dei suoi occhi che non possono vedere, a battaglia, lacero s’avanza il guerriero ch’io sono, la spada a brandire ideali come spauracchi d’orgoglio del blasfemo potere, fantasmi d’ambizione immuni al fato, nel gioco immaginario che più non m’aggrada. Non c’è null’altro ch’io possa aggiungere, nulla mi vieta di non andare ad accogliere i suoi seguaci, quei proseliti convertiti favorevoli alla sua malvagità, tuttavia stento, benché incredulo dal disobbedire, sia lungi da me aprire quella porta che da sempre resta chiusa, murata di dentro … «Mavruz! Maaaavruz!» Or sento la sua voce catarrosa, angosciante, come un’eco lontana che oltrepassa il buio spesso di questa notte senza fine, avanzare nell’ombra, impaziente di mettere fine al suo stesso destino come al mio. Mentre all’apparire del suo spauracchio nero come la pece, respingo la sua ombra con la mano quasi a volerne schiacciare la figura, e torno a nascondere gli occhi dietro le palpebre stanche di così ingiusta luce, di sì ingiusta fine. Da tempo ormai non c’è più legna da ardere in camino, e ogni stanza è fredda e buia come l’anima che la abita, ascosa nei meandri labirintici del male. Nessun lamento o richiamo s’ode provenire dalle stanze mute che vantano il silenzio dell’eterno, sì che l’angelo ribelle è sceso al varo, accolto negl’inferi dei semi-dio, alla sinistra del Supremo che tiene in scacco il mondo; che al mercato delle cose, da sempre va comprando fiori che non appassiranno, sì che a quello della vita va rubando incustodito seme troppe volte germogliato di speranza che più non lo illumina: “Ho sempre pensato che chi spera nella condizione umana è un pazzo, chi dispera degli eventi è un vile”, come sostiene il filosofo sopravvissuto all’ecatombe: “Siamo pionieri della globalità, ma prigionieri dei castelli feudali” (Eco). Ma cos’è questo improvviso questo clangore d’armi, questa levata di scudi? Cos’è questo tumulto di folla che s’agita, che corre, che bussa alla porta con sì veemenza? … «Mavruz! Mavruz! dove sei, maledetto infedele, li senti, che cosa vogliono, vogliono forse abbattere la chiusa porta?» Sì certo, ho orecchie anch’io, ma so che non si fermerà la ferocia umana, pronta a scatenare un’altra guerra: Nigeria, Costa d’Avorio, Congo, Zaire, Palestina, Siria, Israele, e ancora Cecenia, Afghanistan, Ucraina, Irlanda, Corea, Pakistan, India, Tibet, Miammar, ed altri popoli, tanti altri ancora, quando finirà questa ecatombe? Allorché sento arrivare gente da ogni contado, accorrendo con fascine, zappe e forconi, con bastoni e martelli… «Mavruz, cosa mai intendono fare, abbattere la costruzione dei miei affanni, ridurla un ammasso di rovine? Cosa sperano di trovare, tesori, opere d’arte, calici d’oro, crocifissi tempestati di gemme preziose? Ti prego fai in fretta, portami dell’elisir oppure del veleno, che liberarmi voglio da questo consiglio immondo, senza consenso.» Delira il mio Signore, blasfemie corrotte giungono contro di lui, che già non è più qui, involatosi per l’inconscio sconosciuto. Contro di me, Mavruz, chiuso in me stesso, che non sono che il suo umile servo, il faccendiere di questa magione, il cane da guardia del castello, la spalla sulla scena del suo teatro, il compagno di giochi, lo spartiacque dei suoi pensieri, il suo confessore benevolo Son io colui che asseconda i suoi voleri, l’avvocato difensore che non può sottrarsi ad ogni suo incarico, lo snaturato essere dei suoi desideri, delle sue oblazioni, il capro espiatorio dei suoi offertori, l’erede della sua malvagità rimossa, abbandonata come i vestiti vecchi e corrosi che riempiono gli armadi, quel Catone Uticense che malgrado tutto lo aiuterà a oltrepassare prerogative di censo. Come potrei diversamente? La paura, cattiva consigliera, non fa diventare cattivo chi non lo è, che non ha la forza di ribellarsi a se stesso. So già che stragrande scoppierà domani la ribellione del vinto, quando dall’alto degli spalti s’udranno alti squilli di tromba, allorché altri guerrieri, bardati di bronzee corazze e di scudi, prenderanno d’assalto il castello per una disfatta al tempo, che non è la mia. Ed è già tutto un levarsi di spade, di scudi, di vessilli al vento … «A morte il Tiranno! Uccidiamolo! Bruciamo tutto! Al fuoco! Al rogo!», gridano gli invasati. Non intendo fermarli. Non li fermerò. A nulla servono ormai le parole, e già sbavano di bocca in bocca nel dare sfogo alla rabbia insana che non dalla ragione deriva, bensì dall’accidia, dall’invidia, dall’avidità che sollecita il potere, non v’è ragione che tenga quando si arriva a codesta bassezza … «Al fuoco! Al rogo!», impazzano i più facinorosi, i faziosi del male, gli agitatori violenti, mentre le fascine si assiepano a ridosso delle mura. Basta poco, una torcia accesa gettata contro la porta, per riaccendere le fiamme malvagie nel camino. Allorché tutta la magione arde come un falò di carta ingiallita dal tempo, la macchia rosso sangue fuoriesce e si riversa sul foglio a invadere il bordo bianco circostante. È tutto un fuggire in qua e in là senza direzione, a decine, a centinaia, a migliaia cadono i felloni, i palafrenieri, i cavalieri, le guardie, i servitori, i cortigiani, i preti; cadono d’appresso le teste e i busti dei grandi accolti nella biblioteca, bruciano le carte sparse nei cassetti, i ritratti alle pareti degli antenati che lo hanno fin qua sostenuto, si scioglie la ceralacca delle bolle, il sego delle candele, arde la tavola con la tovaglia bianca inzuppata di sangue tinto. Crollano i muri di sostegno, i contrafforti, gli archi romanici, le ogive gotiche, le cuspidi levate al cielo, in un unico falò delle vanità che vede il mio Signore abbandonato dall’impietoso dio degli inferi … «Mavruz, chiuso in me stesso, mi chiedo cos’è di tanto baccano?», mi chiedo, nel mentre avverto improvviso un senso di colpa per la mia cronica incapacità di vivere nel rispetto di desideri altrui, fosse pure di correre consapevolmente qualche rischio, la precisa sensazione d’essere altrove, chiuso in me stesso, in un luogo indefinibile e improbabile, perso in mezzo al nulla, se pure da qualche parte, nell’angolo riposto della mia psicotica evanescenza. Allorché seduto per il desco, con un gesto maldestro rovescio il bicchiere di vino tinto sulla tavola apparecchiata, quando la macchia rosso sangue s’allarga sulla tovaglia bianca e scola sul pavimento, a vuoto. «Mavruz, che c’è, qualcosa non va?», mi chiedo. «Non è niente, vogliate scusarmi», rispondo, levandomi e affrettandomi a uscire dal foglio, mentre nel silenzio irrompe la voce insistente e alquanto alterata che mi chiama.. «Maaaavruz!!!» «Sì, mio Signore, sono qui!» Finis nusquam! Nota: (*) Rossana De Angelis “Daimon”. |
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