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In concorso al San Sebastian Film Festival

SAN SEBASTIAN 2023

Joachim Lafosse • Regista di Un silence.

"Il veleno del crimine si propaga producendo vergogna, silenzio e senso di colpa"
di AURORE ENGELEN
26/09/2023 - L'intenso film del regista belga esamina il peso del silenzio nei casi di violenza sui minori
Incontriamo il regista belga Joachim Lafosse, il cui decimo lungometraggio, Un silence, è in Concorso a San Sebastian. Un film denso e di grande rigore formale, che affronta il peso del silenzio nei casi di violenza sui minori.

Cineuropa: Quali sono le origini di Un silence?

Joachim Lafosse: Ho iniziato a lavorare a questo progetto con il mio co-sceneggiatore Thomas Van Zuylen più di 10 anni fa. All'epoca aveva una forma diversa, ma soprattutto sembrava troppo duro ai miei produttori. Ho girato altri film, finché non ho incontrato la Stenola Productions, e nello stesso periodo ho ricevuto una telefonata da una persona a me cara, che mi ha detto di aver finalmente visto il mio film Elève libre [n.d.r. la storia di un'adolescente maltrattata da un insegnante], che gli amici le avevano sconsigliato di vedere quando era uscito. Questa persona si è scusata per non averlo visto, per non averlo capito, e mi ha chiesto se volevo presentare una denuncia. Ma io avevo già fatto il film, avevo già raccontato la storia. La finzione mi aveva aiutato, ma avevo sofferto abbastanza, non avevo la forza di sporgere denuncia, di espormi in prima persona, come ha fatto Christine Angot, per esempio, che ha avuto il coraggio di parlare della dimensione autobiografica del suo lavoro. All'epoca ero molto silenzioso. Dopo Elève libre, nessuno mi ha mai chiesto come stavo, anche se le persone che mi conoscevano da adolescente lo sapevano. È stato allora che ho capito cosa fossero la vergogna e il silenzio.
Per scrivere il film, mi sono basata sul mio silenzio e su quello di chi mi stava intorno. E mi sono detto che dovevo assumere il punto di vista del personaggio della madre, Astrid. Chi abusa tace, chi sa e non ha nulla a che fare con quel crimine finisce per tacere anche lui, fino a sentirsi complice e colpevole del crimine.

Questo silenzio è raramente quello delle vittime, che spesso si esprimono attraverso le parole e il loro corpo. Ma non vengono ascoltate.

Sì, sono completamente d'accordo con lei. Dalcanto moi, ho girato Elève libre. Era come parlare. Quello che è stato terribile all'epoca è che ho sentito dire che era un film perverso. Avevo la sensazione che le mie parole venissero rivoltate contro di me. Alcune persone, che sembravano aver apprezzato il film, lo hanno trasformato in un film libertario! Oggi direi che le cose sono molto diverse. In 10 anni sono cambiate molte cose. Continuiamo a dimenticare che in un film ci sono due autori: il regista e lo spettatore. E nel tempo le opere d'arte cambiano.
Con Un silence volevo mostrare come si diffonde il veleno dell’abuso. Creando vergogna, silenzio e senso di colpa. E poi mostrare il confronto tra generazioni. Credo che Astrid abbia permesso a sua figlia di essere più libera e di poter parlare. In cambio, è sua figlia che la scuote, e trovo che questo sia molto commovente.

Come si è concretizzata la scelta di parlare del silenzio attraverso il personaggio di Astrid?

La scelta è stata molto intuitiva; è stato lo sguardo nei suoi occhi a commuovermi. Mi sembrava la più chiusa in se stessa. Non appena viene a conoscenza del crimine, è lei quella che avrebbe dovuto proteggere, quindi è colpevole. E poi finisce per metterci troppo tempo a parlare, quando parlare non è più possibile. Spera che in qualche modo le passi. Ma non può.

Che scelte ha fatto per mostrare il punto di vista di Astrid su quella situazione?

Questo è il film in cui io e tutta la squadra siamo stati più esigenti in termini di messa in scena. Si tratta di una situazione così subdola che abbiamo pensato di avere bisogno di una messa in scena estremamente classica, in cui nulla trapelasse. È una produzione silenziosa che lascia la storia completamente a se stessa ed evita qualsiasi tipo di sentimentalismo. L'obiettivo era essere classici, ovviamente non nel senso peggiorativo del termine. È più facile scrivere a mano libera, con una macchina da presa che si può muovere quando si vuole. Qui abbiamo riprese in sequenza in stile Dolly. Pensavo che la Steadicam fosse troppo ovvia, troppo accattivante, troppo spettacolare.
Astrid è un personaggio molto complesso, e il suo stile di vita borghese ti spinge a giudicarla.

Sì, ma lei esce dalla negazione. L'alta borghesia è stata una dimensione molto importante per me. Questa violenza non è una questione di background. La consapevolezza della legge, delle leggi universali che sono alla base dell'umanità, non dipende dalla provenienza. La borghesia può persino offrire maggiori opportunità di liberarsi da queste leggi. Come se la libertà totale fosse possibile quando si hanno i mezzi culturali e finanziari.


SAN SEBASTIAN 2023

Isabel Coixet • Regista di Un amor

"Ho la capacità di sentirmi fuori posto ovunque"
di ALFONSO RIVERA

26/09/2023 - La regista torna al festival con il suo adattamento per il grande schermo dell'omonimo romanzo di Sara Mesa, interpretato da Laia Costa, che torna a lavorare con la catalana dopo Foodie Love

Questo articolo è disponibile in inglese.
After presenting the documentary The Yellow Ceiling here a year ago, Isabel Coixet is back at the San Sebastián Film Festival, but this time in its official competition section, vying for the Golden Shell with Un amor, her own personal version of the novel of the same name penned by Sara Mesa. The film is toplined by Laia Costa.
Cineuropa: I’ve read the original book, and when I saw the film, I noticed several things had changed. For example, I don’t remember the dog being a hermaphrodite in the book…
Isabel Coixet: I chose that dog because I liked its face, which was covered in scars, and then they told me it was intersex; after that, I decided to put it on screen, but showing it as something real belonging to the animal. I wouldn’t have thought of something like that had it not been for the fact that the animal was like that anyway.
What’s more, the protagonist’s job is different: she’s a translator in your film.
I thought that was important: it had to be clearer to us, this knowledge of where Nat [played by Laia Costa] comes from, what she does, and how, in a certain way, when you translate the dreadful statements made by refugees day after day, it ends up affecting you. There’s a trauma – which the translators themselves don’t talk about – stemming from the real-life atrocities they have to translate. So yes, I thought that professional and personal aspect was quite important.
You’ve also changed the ending.
I asked Sara if she wanted to be involved in writing the script, but she was writing another novel and was getting a bit sick of Un amor. I told her that I liked her work, but that there was information that the viewer needed – such as knowing where each character comes from and the fact that, when you show negative things and the rollercoaster of emotions that the main character goes through, there has to be a reason for it all. I know that in life, people suffer and it’s all for nothing: you could be diagnosed with leukaemia, but it’s not like you turn into the Dalai Lama. I don’t have many rules as a director, but I like to think that everything that happens to you in a feature film will lead you somewhere else, and you will be in a different place, emotionally.
The rural landscapes and mountains stifle the main character: is the countryside not so idyllic after all?
Un amor depicts a microcosm, and when you’re in it, the dynamics of the inhabitants of this place are in your face, all the time. In the city, it’s more watered down, even though the dynamics are the same.
In the novel, there’s a lot of thinking; how did you translate those ideas to the screen?
We started from who Nat is, where she is, how she moves and how she dresses. I told Laia, “You put sandpaper on your knees;” we had to notice how scratchy it is, that the walls are not moving with you, the furniture is coated in muck, and it’s black water that comes out of the tap. Those physical things we experience through her are the things that convey what is going on in her head. I really like voice-overs, but I knew from the start that there wouldn’t be one in this film; rather, the camera would always stay with the character.
Nat/Laia feels out of place in this town she’s moved to.
I have the ability to feel out of place in any setting: I’m very democratic in that respect.
What is it about Nat that you identify with the most?
Many aspects. As people, we do things that we can’t even explain, and then we cling to people who awaken something in us – whatever it may be – and you can go straight from revulsion to fascination. I’m always surprised at how easily we judge the behaviour of others, as if we came from an unblemished world where we’ve never made a wrong decision and we were these pure spirits.
You’re working with actress Laia Costa again after the series Foodie Love.
We directors are very lazy: when we know that someone does a good job, why would we look for anyone else? I think she has incredible abilities: I really like her dedication.
The styles used in that series and this film are totally different.
That’s a good thing, isn’t it? Because if we always did the same thing… Of course, Un amor is not a romantic comedy à la Bridget Jones.
You are fairly active, always with projects on the go – the next one stars Penelope Cruz, with whom you worked previously on Elegy.
I have a great deal of curiosity, and sometimes it kills the cat and takes me places that are not worth going to, but it intrigues me to do things I’ve never done before.

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