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Rethorica novissima

 

✉ Pubblichiamo in anteprima questa recensione, in forma di lettera, di “Rethorica novissima” di Gualberto Alvino, firmata da Carlo De Matteis, che ringraziamo, professore emerito di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi dell’Aquila.
La recensione sarà pubblicata prossimamente sulla rivista cartacea “Fermenti”.

 

 

📝 Carissimo Gualberto,

mi sono applicato a piccole dosi quotidiane alla lettura del tuo volumetto, la cui complessità è inversamente proporzionale alle sue dimensioni, ma la mia ignoranza dei tuoi precedenti titoli, ovvero del tuo percorso di cui la Rethorica è a tut’oggi l’esito finale, nonché la scarsissima conoscenza della poesia italiana degli ultimi decenni (sono fermo a Zanzotto), mi privano dei necessari punti di riferimento per un discorso critico all’altezza, come riesce a fare egregiamente Muzzioli, del tuo lavoro. Mi spiace di essere tanto inadeguato e di non poterti accludere se non sparse osservazioni, piuttosto impressioni che non un organico giudizio.

Inizio dal titolo stesso della raccolta, nella quale l’impercettibile metatesi annidantesi nel sostantivo, Rethorica in luogo di Rhetorica, è già un preludio all’effrazione linguistica operata nel corpo delle poesie seguenti: segno di richiamo, e nel contempo di distinzione dal trattato dugentista di Boncompagno da Signa, mentre l’aggettivo correlato proclama la consapevolezza di un’arte della parola e del discorso poetico inedita e inaudita, consonando con l’analoga operazione del gruppo di poeti degli anni Sessanta.

L’epigrafe in limine di Proust, successivamente richiamato nella variazione su di lui (La stanza 414) e in qualche altro accenno, è un programma di lavoro e, ancor più, un richiamo alla sua strenua ricerca di una originalità stilistica assoluta fuori e al di sopra della media contemporanea. Ma al di là di questi dati espliciti, mi sembra di avvertire, sia pure nella differenza di genere, di temi e di lingua, un’aura proustiana aleggiare su tutta la raccolta. C’è forse nella poetica orgogliosa e quasi sprezzante della mediocrità (in senso dantesco) di tanta parte della poesia di oggi e del mondo letterario in genere, poiché la tua lingua è una sfida temeraria alla lingua della convenzione poetica in uso, uno sforzo ad oltranza di saggiarne i confini e il potere espressivo. E proustiana mi sembra l’assimilazione di citazioni letterarie, soprattutto dantesche, e perfino continiane!, abbondantemente disseminate in molte poesie, pratica per certi versi avvicinabile all’intento e all’effetto del pastiche dello scrittore francese, alla sua mimesi magistrale della scrittura di altri autori.

Queste poesie poteva scriverle solo un linguista d’eccellenza dalla sovrana sapienza lessicale e grammaticale pari tuo, che tocca vertici inediti di invenzione verbale in quell’impressionante tour de force linguistico in forma di trattato fisiologico che è la lunga lirica Humanitas, nella quale non so se ammirare di più la conoscenza medica o la distesa trama ragionativa entro cui si inscrive.

Il prefatore si sofferma in apertura sulla figura del critico che si fa scrittore e sull’atteggiamento per lo più diffidente che circonda questo passaggio, ma valga a dar credito al tuo una dichiarazione di Proust (de cuius), secondo cui «i versi di un critico rappresentano il peso sulla bilancia dell’eternità di tutta la sua opera». Ragione ben solida a proseguire e dar forza alla tua vocazione poetica.

Non inferiore per novità all’aspetto linguistico è poi quello della prosodia versale, in cui l’assenza della punteggiatura e di ogni segno grafico e il frequente frazionamento sintagmatico del singolo verso obbligano ad una lettura impegnativa, tesa al riconoscimento delle pause e degli scarti semantici interni al verso stesso per ricomporne coerentemente il senso complessivo. Quest’aspetto, dalle implicazioni ritmiche che una recitazione orale metterebbe a dura prova, evidenziandone tuttavia la complessa costruzione, meriterebbe un’analisi tecnica più diffusa e meno sommaria di quella appena tentata.

L’altra disciplina che governa il libro è con evidenza la filologia, come segnalato anche dal prefatore. È affascinante l’uso che ne fai assumendola a metafora di situazioni e problemi trattati nei testi, a ordine del discorso che vieni svolgendo, quasi paradigma interpretativo della realtà, particolarmente nella terna Codices inutiles, Canzone per andare in maschera, Mon triste coeur. Quest’uso della terminologia filologica dà luogo a divertenti invenzioni combinatorie verbali in cui dai prova di un virtuosismo stilistico stupefacente, nonché di una cultura pluridisciplinare non comune.

Trovo infine che nel libro si delinei una sorta di prontuario di poetica permanente, ammonitoria e controcorrente, demolitoria e innovativa a un tempo, che ben si salda ai bersagli polemici del discorso. Il legame tra gli aspetti formali e i temi della raccolta sono ben individuati, sin nel titolo, nella prefazione ed io non saprei dir meglio: come vedi, mi sono applicato esclusivamente ad alcuni degli aspetti formali del tuo lavoro, i cosiddetti significati mi sembrano meno decisivi e non sempre facilmente accessibili, almeno alle mie modeste capacità cognitive.

Il beneficio di questa lettura, per un lettore quasi digiuno di poesia come me, è l’apertura di orizzonti insospettati sulla potenzialità della parola, sul suo inesausto potere combinatorio che credevo ormai esaurito (il postmoderno insegna) e che mi lascia stupefatto e speranzoso sul futuro della poesia.

Ho affastellato parole, caro Gualberto, più che svolgere un discorso organico degno del tuo libro, e non certo delle esigenze dell’editore, che non poteva incontrare recensore meno “sicuro” di me. Ma aspetto la consegna della Perfetta, esercizio di scrittura di diverso genere, presumo, e poi la notizia dell’uscita del nuovo titolo di cui mi hai detto, sul quale spero di dare prova di migliore comprensione.

Grazie comunque dell’occasione che mi hai offerto di misurarmi di nuovo con la poesia, quella che stimola il senso critico e attiva l’intelligenza.

Un caro saluto dal tuo Carlo

 

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