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Il mio Proust

Invitiamo alla lettura di “Il mio Proust”, saggi proustiani 1998-2021 di Gennaro Oliviero, a cura di Giuliano Brenna, proponendo la lettura dell’Introduzione di Lorenza Foschini.

 

Come entrare nel sapiente e seducente mondo della critica proustiana? È quello che mi sono domandata quando Gennaro Oliviero mi ha chiesto di scrivere la Introduzione di Il mio Proust, una colta e appassionata raccolta di suoi saggi sull’Autore da noi tanto amato, dove ritrovo citati studiosi che nei lunghi anni mi hanno guidato per mano, illuminandomi tra le pagine della Recherche, da Giacomo Debenedetti a Giovanni Macchia, da Mariolina Bertini a Mario Lavagetto.

Mi sono disposta con l’animo della semplice lettrice, che a vent’anni fu folgorata da un incontro fatale come solo una Tyche benevola poteva provocare. Da allora ogni frase, ogni rigo di Alla ricerca del tempo perduto ha suscitato in me così tante passioni, turbamenti, identificazioni, malinconie struggenti e risate piene di felicità da rappresentare un universo parallelo a quello in cui mi muovevo, ma altrettanto reale, un luogo dove tutte le persone, che nel corso della mia vita incontravo, avevano una loro precisa corrispondenza nella galleria di personaggi proustiani, come in un erbario che descrive meticolosamente ogni genere di piante medicinali, le loro caratteristiche e le loro virtù.

 Ci si può accostare in tanti modi alla Recherche e ognuno è personalissimo. Si può farlo, ad esempio, con la conoscenza del critico, indispensabile aiuto per non perdere la bussola nell’oceano proustiano, o con l’operoso costante lavoro di appassionati saggisti come Gennaro Oliviero che, anche attraverso la raccolta di scritti di grandi autori o semplici “amateurs” condotta da lui in lunghi anni, ha animato la rivista bilingue italiano / francese Quaderni proustiani. Si può farlo con l’animo sgombro dai ragionamenti di chi si abbandona al moto ondoso di frasi interminabili e si lascia trasportare in quel mare a volte reso sereno da una calma piatta in cui si intuisce in lontananza la sconvolgente traccia dell’infinito. È “le bonheur de Proust” di cui ci parla Barthes, in cui “d’une lecture à l’autre, on ne saute jamais les mêmes passages”.

Marcel nel 1913 scrive a Zadig, un bassotto a pelo lungo comprato a Versailles da Reynaldo Hahn, da una zingara che glielo aveva voluto assolutamente offrire. Rivolgendosi al cane in tono scherzoso espone seriamente la sua idea d’intelligenza che “serve solo a sostituire le impressioni che fanno amare e soffrire con delle false impressioni che fanno amare e soffrire meno. Nei rari momenti in cui ritrovo tutto il mio affetto, tutta la mia sofferenza, è perché le mie sensazioni non sono più basate su false idee ma su qualcos’altro che esiste, uguale, in te e in me, cagnolino mio. E questo mi sembra così superiore al resto che solo quando torno a essere cane, un povero Zadig come te, che mi metto a scrivere, e solo i libri scritti così sono quelli che mi piacciono…”. Eccomi quindi incoraggiata a fare delle brevi considerazioni sulle interessanti pagine del libro di Gennaro Oliviero seguendo la pascaliana strada del cuore, ma per ragioni di spazio e di affinità mi limito ad alcune riflessioni che toccano più da vicino la mia esperienza di lettrice di Proust.

In un capitolo “Frammenti proustiani: vita e opera” Oliviero riporta un’osservazione di Giovanni Raboni: “Nessuno tra i grandi artisti del nostro tempo è stato e continua ad essere oggetto di questo particolare tipo di attenzione quanto l’autore della Recherche” e Mariolina Bertini, citata sempre nel libro: “Dobbiamo constatare che proprio questo fiero nemico del biografismo ha ispirato diverse generazioni di biografi appassionati e a volte geniali, instancabili nel tessere tra vita e opera la fitta trama di corrispondenze e opposizioni, di lacune misteriose, di antipatie significative e di misteriose affinità.”

Anche io, nel mio piccolo, non ho resistito al desiderio, ma direi piuttosto alla necessità di scavare nelle pieghe della vita di Proust nel tentativo di ricostruirne passaggi poco esplorati fino a spingermi in indagini forse ossessive come cercare qualcosa di lui finanche nelle tasche del suo “cappotto” dimenticato in un deposito del Museo Carnavalet. Cosa muove me e altri a investigazioni che molti potrebbero giudicare maniacali?

Gennaro Oliviero ci spiega che “si tratta di una trappola in cui sono caduti tutti coloro che affrontano questioni legate alla Recherche e al suo Autore, in questo favoriti dal convulso intreccio, negli ultimi anni della vita di Proust, tra biografia e romanzo”.

Credo che la sua sia una giusta osservazione, ma c’è qualcosa in più.

Quando, scorrendo più volte la Recherche, arrivata alle ultime pagine di Le Temps retrouvé leggo: “Ah! si j’avais encore les forces…”, queste parole mi giungono come un grido, una richiesta straziante di aiuto. Ed è in quel momento che il rapporto, già così emotivamente simbiotico, tra me e il Narratore si trasferisce in un amore profondissimo per il suo Autore. E a nulla vale l’insistere di Proust nell’invitarmi a distinguere tra lui e il protagonista del Romanzo. Perché il sentimento che mi coglie è il più proustiano che ci sia, quello che ha Swann verso Odette e che, nella sua vita, ebbe Marcel verso Reynaldo. Un bisogno insaziabile di “possedere” l’essere amato che inevitabilmente scatta dopo il nascere e il compiersi di un amore. Da qui il desiderio inesauribile di sapere tutto di lui, di portare alla luce i suoi più reconditi segreti.

Uno sconvolgimento che esalta me come tanti altri e che non mi abbandona mai: è la “vertigine” di cui parla Gennaro Oliviero chiudendo il “suo” Proust.

 

Lorenza Foschini

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