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Luci segrete


[Recensione di Silvana Leonardi]

 

Vorrei riuscire a trasferire in parole l’emozione che ho provato alla prima lettura di Luci segrete. Parlo di una prima lettura perché in realtà sono tornata più volte su queste pagine, gustando e centellinando come fosse un elisir ogni haiku. E come in un elisir, infatti, Francesco De Girolamo ha distillato una grande quantità di pensiero traducendola nella leggerezza di un brivido, di un respiro, un respiro consapevole che superando la propria finitezza si ricollega e si sintonizza con il ritmo dell’universo.

La chiave della fascinazione dell’haiku in generale e di questi haiku in particolare è un’apparente semplicità di una parola rarefatta che corrisponde a un sentimento che potrei definire “trattenuto” distillato anch’esso...e non è certo un caso se tanti artisti visivi amano l’haiku sia come parte integrante delle loro opere sia nella forma del libro d’Artista, e non solo per la sua valenza grafica ma anche per il suo connaturato strettissimo rapporto con l’immagine: disegnare forme e/designare parole con precisione e consapevole attenzione nel silenzio di un respiro a creare un vuoto interiore atto alla creazione nello spazio magico della poesia o invece talvolta in una forma di accanimento quasi terapeutico, in una sorta di eros della parola poetica che ricerca la penetrazione/contaminazione con l’immagine.

In Luci segrete ogni haiku è uno scrigno che racchiude tesori di sguardi inaspettati, di brividi di bellezza in cui lampi di smeraldo, trasparenze d’azzurro, fiori che si inchinano al vento e colorano e illuminano perfino l’inferno dello sconforto in un percorso poetico che mette in parola la bellezza di un mondo sospeso, una bellezza che si può cogliere solo con uno sguardo attento e consapevole, in un tempo che coniuga presente passato eterno.

La memoria, «scriba dell’anima» secondo Aristotele, gioca un ruolo fondamentale in questa opera che si inserisce a pieno titolo nell’ormai blasonata tradizione occidentale dell’haiku pur mantenendo, non soltanto nella metrica, le caratteristiche precipue di questa forma espressiva giapponese nel limitare la concettualizzazione eccessiva dell’occidente e mantenendo l’incanto e lo stupore, lo scarto e la rapidità dell’intuizione/visione in un’alternanza di livelli che carica di sensi la parola che riacquista tutta la sua potenzialità semantica.

Se scrivere è distendere tensioni, sciogliere nodi, districare fili ricucire gli strappi, l’intento sotteso dello haijin è forse decifrare i codici ansiogeni della vita per trovare attese e posti acquietanti o inquietanti. E ciò avviene qui «decorticando» le parole, «sfregandole una con l’altra»come scrive Barthes e con l’oggetto divenuto oggetto del desiderio, in una sorta di innamoramento in cui il linguaggio, diventato una pelle, provoca il desiderio di penetrare sotto la pelle dellascrittura aumentandone così il potere evocativo e ricercando le profondità di una lingua in cui le parole convocano altre parole, in un ritmo interiore insieme malinconico e giocoso con quella “immediatezza” e “spontaneità”, richieste sia nella seduta psicoanalitica sia nella composizione dell’haiku, e che «sono frutto, invece, di una disciplina “costosa” – in tutti i sensi» (Leonardo Vittorio Arena). In un itinerario che è al tempo stesso esistenziale (quasi un diario) e poetico e in cui il lettore può a ogni tappa “diversamente” specchiarsi in quello che potremmo definire un errare, un’espansione, nella polisemia e nell’ambiguità semantica della parola, del viaggio/sogno intrapreso verso approdi sempre provvisori, dell’io alla ricerca di una fulminea e momentanea (effimera?) rivelazione, in attesa di cogliere un bagliore che illumini la notte, che consenta ad un tempo contemplazione ed immersione, intimità e condivisione, in una percezione quasi simultanea del “materiale” e dell’immateriale, la scoperta del vero può giungere proprio tramite l’esperienza della “parola” e del suo rovesciamento, ma con qualche non irrilevante differenza rispetto all’haiku tradizionale, dove il ribaltamento semantico o concettuale, il salto tra concetti e immagini si rivelano apparentemente privi di connessione e di senso poiché «Il senso non è che un flash, un graffio di luce: “When the light of sense goes out, but with a flash that has revealed the invisible world” scriveva Shakespeare, ma il flash dello haiku non rischiara, non rivela nulla; è come quello di una fotografia che si scatta con molta cura (appunto alla giapponese) ma avendo omesso di caricare l’apparecchio con l’apposita pellicola» (R. Barthes).

La differenza radicale, seppur rispettosa, con la tradizione orientale dell’haiku e l’originalità rispetto a quella dei poeti occidentali non è quindi solo questione di non ritenere vincolante l’uso del kigo e del kireji (o dell’uso di strumenti linguistici come ad esempio chiasmo, ossimoro, sineresi…) ma risiede proprio in quella che chiamerei l’intenzione di questa raccolta così affascinante che si configura come un vagabondaggio dell’io razionale alla ricerca di una visione, un’immagine, un sentimento, che come fulminea e transeunte rivelazione, riverberi un senso e una cristallizzazione nel tempo a oggetti materiali (giada, fiore, perle, mani, braci, radici, volti, campane), e immateriali (respiro, assenza, trasparenza, silenzio), accadimenti atmosferici (vento, pioggia, lampi, libeccio) elementi naturali (onde, nuvole, ombre, neve, fuoco, brina, fiumi, solchi, gorghi) ridando nel contempo vita e vitalità, oltre che durata, a questi «momenti di essere» (V. Woolf), bagliori, luci segrete, a illuminare l’interminabile notte. E poiché, dice Breton, «l’amore è quando incontri qualcuno che ti dà delle notizie su di te» non possiamo non amare questi versi che nell’apparente immediatezza e nella loro ingannevole individualità parlano di noi, rivelandoci a noi stessi come riflessi sulla superficie di uno specchio, immersi nella nascosta profondità della poesia.

 

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