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al testo di Redazione LaRecherche.it
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A òlte
Iè raro, ma no’ posso dir de non sentirme mai solo o orbo. Sì, a òlte vorìa che te vegnissi fóra da ’na vecia fotografia, cofà pa’ liberarme de le robe picinine del tenpo de ancuò e de la vita che se strassina co’l soito tran tran. Forse no’ digo gnente che no’ te sapi zà. Comuncue, gò bisogno de ‘ndare drento ’na pagina, de tentare a spiegarme parché no’ podarò pì vedare ’na imagine de ti che no’ gabia zà visto e rivisto.
Iè raro, credame, ma a òlte gò bisogno de scrivare cofà on carbon ardente.
A volte
È raro, ma non posso dire di non sentirmi mai solo o accecato. Sì, a volte vorrei che uscissi da una vecchia fotografia, così da liberarmi delle cose piccole del presente e della vita che si trascina con il solito tran tran. Forse non dico niente che tu non sappia già. Comunque, ho bisogno di entrare in un foglio, di tentare a spiegarmi perché non potrò più vedere un’immagine di te che non abbia già visto e rivisto.
È raro, credimi, ma a volte ho bisogno di scrivere come un carbone ardente.
’Ncora sì
Digo ti a chi? Cue’i che ciamo no’i respira pi sta aria. So chi porto in-te ’l cuore, ma chi ciamo lo sa? Gà poca importanzha, del resto. No’ me ‘speto gnente da le parole, ma spero che ogni parola no’ la rinforzhi e anzhi che l’adolcissa l’ignoranzha ‘traverso le lagreme. No’ scrivo pa’ sepeire el me tesoro, né pa’ serare i oci. Scrivo pa’ dire ’ncora sì, pa’ sentire de esistere da cualche parte e parché xe el modo pì senplice de ricordare, in-tel ’l senso che basta poco. Xe suficente on foijo e ’na matita. Eco, Solo: da tegnere a portata de man, anca e specialmente pa’ canceare. Oramai xe ’na roba che fasso pa’ abitudine. Alo steso modo de Emilio Isgrò, canceo pa’ ricordare de no’ ricordare. Zà, proprio cussi: oblio e memoria i iè i me roghi.
Ancora sì
Dico tu a chi? Quelli che chiamo non respirano più quest’aria. Io so chi porto nel cuore, ma chi chiamo lo sa? Ha poca importanza, del resto. Non mi aspetto niente dalle parole, ma spero che ogni parola non rinforzi e anzi addolcisca l’ignoranza attraverso le lacrime. Non scrivo per seppellire il mio tesoro, né per chiudere gli occhi. Scrivo per dire ancora sì, per sentire che esisto da qualche parte e perché è il modo più semplice per ricordare, nel senso che basta poco. È sufficiente un foglio e una matita. Ecco. Soltanto: da tenere a portata di mano, anche e specialmente per cancellare. Ormai è una cosa che faccio per abitudine. Alla stessa stregua di Emilio Isgrò, cancello per ricordare di non ricordare. Già, proprio così: oblio e memoria sono i miei roghi.
Fasso la pónta
Torno al foijo e a la matita. Altrimenti devento mato. Tuto canbia. O gnente. Xe come se, colpìo in-te ’l profondo da le parole de Thierry, fusse precipità da on incubo a nantro. Simie, ma diferente. Gnente canbia. O tuto. Forse morire ’na seconda òlta zhonta calcossa. La testa me s’ciopa. Fasso la pónta a la matita. No’ scrivo, ma disegno: dó lapidi su le cua’i riporto lo stesso nome e dó date de morte che no’ le conbacia. Sospiro. Dopo giro el foijo. Scrivo; «Ovuncue te coli a pico, l’abisso no’ esiste pì».
Appunto la matita
Torno al foglio e alla matita. Altrimenti impazzisco. Tutto cambia. O niente. È come se, colpito nel profondo dalle parole di Thierry, fossi precipitato da un incubo a un altro. Simile, ma differente. Niente cambia. O tutto. Forse morire una seconda volta aggiunge qualcosa. La testa mi scoppia. Appunto la matita. Non scrivo, ma disegno: due lapidi su cui riporto lo stesso nome e due date di morte che non combaciano. Sospiro. Poi giro il foglio. Scrivo: «Ovunque t’immergi, l’abisso non esiste più».
[ da Teatrin de vozhi e sienzhi - Teatrino di voci e silenzi, Renzo Favaron, Ronzani Editore ]
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