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Murice

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Come accadeva ogni Settembre, Luigin partiva alla volta della Riviera.
Partiva per ritornare con tre barili d’acciughe; tre quintali di pesce sottosale da vendere a chi sulla tavola non aveva altro che polenta e s’illudeva, strofinandola su quel pesce argentato, di darle un sapore diverso.
Luigin era una pertica d’uomo magro e nervoso e vederlo tirare quella pesante carretta di pesci ricordava un bue legato all’aratro. Lui, “anciuie” della Val Maira, era uno dei pochi che il mare l’aveva visto per davvero, girando tutti i porti del ponente ligure alla ricerca della sua ricchezza. Nutriva un’ammirazione profonda per chi sul mare galleggiava, per chi con le reti pronte, rimaneva in attesa di un “pallone di acciughe”: un branco di pesciolini d’argento riuniti a formare una specie di gigantesca palla a pelo d’acqua.
Dalla riva i locali distinguevano il loro passaggio dal ribollire di mare in lontananza.
Sapevano che dietro a quel pallone di pesci c’era qualcosa di più grosso e feroce, forse un tonno.
I pescatori non si sarebbero fatti fuggire quell’attimo. A riva, in quella rete stracolma e grondante, Luigin riconosceva il suo guadagno sorridendo felice.
In tasca come portafortuna teneva un murice, una conchiglia che in qualche modo gli assomigliava: nodosa e con un forte odore di mare. Portava in testa un cappellaccio e vestiva una giacca di velluto così brillante di sudiciume da sembrare fatta di squame di branzino.
Nelle sue valli e in pianura, trasportava schiacciati in un barile, quintali di pesce e di sale: mare evaporato.

La guerra l’aveva sorpreso anziano e solo, allontanandolo per sempre dal suo carretto di pesci. Gli era rimasta una figlia da marito e la conchiglia portafortuna. La prima, insofferente di quella vita da bestia e di quegli orizzonti grami, in una giornata di primavera scappò via con la promessa di ritornare. Il vecchio padre sorrise, giurandole che era la scelta giusta e che lui ce l’avrebbe fatta anche da solo.
Un giorno d’autunno del ’44 arrivò in paese un manipolo di soldati tedeschi con i cani. Cercavano un giovane partigiano che in un’imboscata aveva fatto saltare in aria una motocicletta con due ufficiali. Un bel botto. Negli occhi del ragazzo un misto di soddisfazione e stupore nel vedere i brandelli del nemico sul ciglio della strada. Nella fretta di scappare però, abbandonò la giacca: una traccia che gli poteva costare cara. I cani infatti annusandola, tiravano ansimando verso la frazione dove Luigin abitava. Non poteva nascondersi che da quelle parti ma arrivò la sera e non lo trovarono. Le tracce si perdevano nel nulla. Bestemmiando Dio in una lingua che assomigliava all’abbaiare dei loro cani, i tedeschi se ne andarono.
Scese la notte e tutto tornò tranquillo.

Luigin si incamminò verso il fienile dove poco prima quelle bestie scorazzavano rabbiose.
Si avvicinò alla carretta e da un barile sgattaiolò fuori un ragazzino pallido in volto e tremante dalla paura. "Tl'as pà d'avè paur, fieul, mac 'n ciat a l'avria truate lì 'ndrinte"
(“Niente paura ragazzino, solo un gatto ti avrebbe potuto trovare qui !” )
Sorrise Luigin stringendo a se quell’eroica acciuga salata.
Regalò il murice al ragazzino augurandogli ancora tanta fortuna.

Quella conchiglia l’ho trovata in una casa abbandonata nel vallone di Celle e mi sono chiesto cosa mai ci facesse li. Oggi è sulla mia scrivania.
Sarei felice di restituirla al legittimo propietario ringraziandolo per il coraggio dimostrato: quel coraggio che ha permesso a noi acciughe, di continuare a essere libere di “fare il pallone” in barba a qualsivoglia tonno.
Oreste Villari
(Tratto con modifiche da “Il Caragliese” ANNO XXV n Giovedì 2005)

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