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Prefazione di Alessandro Serpieri: Poesie di Menotti Lerro

UN’ILLUSORIA FENOMENOLOGIA DI RIFLESSI, ILLUSIONI, INCUBI di Alessandro Serpieri

 

Questa selezione di poesie di Menotti Lerro si apre non a caso con un lungo componimento che già nel titolo – La verità dell’ombra – esprime il tema portante di una febbrile immaginazione creativa secondo cui lo spettacolo del mondo non è che illusoria fenomenologia di riflessi, illusioni, incubi. Alle apparenti evidenze del giorno, come alle sparse tracce memoriali cui dovrebbe affidarsi la continuità e quindi il senso della soggettività sofferente, risponde la densa o sorda intensità della notte a testimoniare lo scacco di un mistero non rivelabile perché inesistente. Sul nero sipario punteggiato di frammenti, baratro di un passato di morti, affiorano figure e storie d’infanzia: qui, e altrove, quella del padre che con un gesto simbolico vorrebbe trasmettere al figlio il segreto della vita e della morte, e in altre poesie quella della madre che, tra faccende casalinghe, cerca comunque l’apertura dell’orizzonte (poesia n. 32) – due tensioni a un oltre, ma vane entrambe, poiché nel rimemorarle l’io poetante disperatamente le sconfessa con l’orrore della materialità atomica o molecolare dei corpi umani votati alla disgregazione, salvo trovare, forse, un acquietante travaso in contenitori oggettuali saldi ed eterni (poesia n.2). Altra, e più ricorrente, costruzione e costrizione di riscatto è la scrittura stessa, ma non come celebrazione del sé e del mondo, bensì come disastrata testimonianza, su carta nera, sanguinante, bruciante, dell’assenza di Dio nella solitudine dell’io che in quella carta si consuma – come nella poesia n. 3, un sonetto che si chiude stringendosi sull’inane rispecchiamento tra testo e autore. Poiché insensato è l’impulso verso una certificazione del sé e del mondo nella precarietà della parola. I ricordi impallidiscono, ne restano teneri lacerti di pianto, e l’amore è un sogno, mentre il tempo umano è un Poesie scelte - testo definitivo.pmd 06/10/2010, 9.12 14 15 fiume disseccato che “scorre” solo per riflessi e non conosce certezza di arrivo in un qualche dove (poesia n. 7). Quale finale dunque? La bestemmia di una Apocalisse che nulla rivela se non la materiale malata corporeità in vano tragitto transitorio (poesia n. 8). Con, in più, l’orrore di sdoppiamenti e raddoppiamenti del Sé, fino a specchiature che lo alienano in riflessi su oggetti (poesie nn. 12 e 13) o in ambiguità di genere (poesia n. 15) o in morte icone (“statua di sale” nella poesia n. 16, “Statua intessuta/ di nervi e tendini” nella poesia n. 23). Il sole stesso illude di luce assassina (poesia n. 18), e ben lo afferra la cagnetta morente in cerca di un luogo dove morire, mentre l’io testimonia perfino la labilità del suo sguardo che non ricorda o stravolge la luce umana degli occhi tante volte incontrati e ora implosi in “buchi neri” sotto corpi sbriciolati in “ombra oscura” (poesia n. 21). E gli occhi degli sguardi dati e ricevuti finiscono nel nulla della dimenticanza o della morte (poesia n. 29). Resta infine la maschera, o le infinite maschere che non certificano l’identità del Sé, a parte quella finale, mortuaria, “che le riassume tutte” (poesia n. 31). Qua e là, alla desolazione del canto si alternano ballate narrative sulla china della disillusione: esempi di doloranti e insensate vite (come la poesia n. 25), o accumuli di teneri ricordi d’infanzia dove, però, il “perché” non fu trovato per la morte dei cari, o di un cane, e per lo spaesamento esistenziale che solo il racconto di fiabe a una bambina può infine esorcizzare (come nella poesia 33). Il sigillo della raccolta è intonato su quest’ultimo tema: l’illusione dei sogni, la ricerca di un Dio, malgrado tutto, e il rimpianto dell’infanzia vibrante di un vivere oltre le parole e prima del grande disincanto. Tra disperazione e sogno, la voce poetica di Lerro mostra una peculiare forza espressiva modulata con immagini spesso sorprendenti e con una sapiente tecnica ritmica e/o metrica. Che la bella traduzione spagnola riesce quasi sempre a rendere con efficacia.

 

UNA ILUSORIA FENOMENOLOGÍA DE REFLEJOS, ILUSIONES, PESADILLAS.

 

Esta selección de poesía de Menotti Lerro se abre, no por casualidad, con una gran composición que, ya en el título, La verdad de la sombra, explica el tema, portador de una febril imaginación creativa según la cual el espectáculo del mundo no es sino ilusoria fenomenología de reflejos, ilusiones, pesadillas. A las aparentes evidencias del día, así como a las diseminadas huellas de la memoria a las que se debería confiar la continuidad y, por ende, el sentido de la subjetividad sufriente, responde la densa y sorda intensidad de la noche dando testimonio de la derrota de un misterio no revelable por inexistente. En el negro telón salpicado de fragmentos, abismo de un pasado de muertos, afloran figuras e historias de infancia: aquí y allá, la del padre que, con un gesto simbólico, querría transmitir al hijo el secreto de la vida y de la muerte, en otras poesías la de la madre que, entre tareas domésticas, busca no obstante la apertura del horizonte (poesía nº 32), dos tensiones a un más allá, mas vanas ambas, porque, al rememorarlas, el yo que poetiza desesperadamente reniega de ellas con el horror de la materialidad atómica o molecular de los cuerpos humanos destinados a la disgregación, salvo encontrar, quizás, un aquietante trasvase en contenedores objetuales estables y eternos (poesía nº 2). Otra, y más recurrente, construcción y constricción de rescate es la escritura misma, mas no como celebración del yo y del mundo, sino más bien como desastrado testimonio, en papel negro, sangrante, quemante, de la ausencia de Dios en la soledad del yo que en aquel papel se consuma, como en la poesía nº 3: soneto que se cierra apretándose sobre el inane reflejo entre texto y autor, puesto que insensato es el impulso hacia una certificación del yo y del mundo en la precariedad de la palabra. Los recuerdos palidecen, quedan de ellos tiernos lacertos de llanto, y el amor es un sueño, mientras el tiempo humano es un río seco que fluye sólo por reflejos y no conoce certeza de llegada a ningún donde (poesía nº 7). ¿Qué final entonces? La blasfemia de un Apocalipsis que no revela nada sino la material enferma corporeidad en vano trayecto transitorio (poesía nº 8). Con, además, el horror de desdoblamientos y duplicaciones del Yo, hasta reflejos que lo alienan en imágenes sobre objetos (poesías nºs 12 y 13) o en iconos muertos (“Estatua de sal” en la poesía nº 16, “Estatua tejida de nervios y tendones” en la poesía nº 23). El sol mismo ilusiona con luz asesina (poesía nº 18) y bien lo aferra la perra moribunda en busca de un lugar donde morir mientras el yo testimonia incluso la labilidad de su mirada que no recuerda o distorsiona la luz humana de los ojos tantas veces encontrados y que ahora han hecho implosión en “agujeros negros” bajo cuerpos hechos briznas en “sombra oscura” (poesía nº 21). Y los ojos de miradas dadas y recibidas terminan en la nada del olvido o de la muerte (poesía nº 29). Queda finalmente la máscara, o las infinitas máscaras que no certifican la identidad del Yo, a parte de la final, mortuoria, “que asume todas” (poesía nº 31). Aquí y allá, a la desolación del canto se alternan baladas narrativas sobre la ladera de la desilusión: ejemplos de dolientes e insensatas vidas (como en la poesía nº 25) o cúmulos de tiernos recuerdos de infancia donde, sin embargo, el “porqué” no se encontró por la muerte de los seres queridos, o de un perro, y por el desplazamiento existencial que sólo el contar cuentos a una niña puede exorcizar (como en la poesía nº 33). El sigilo de la recopilación está entonado en este último tema: la ilusión de los sueños, la búsqueda de un Dios, a pesar de todo, y la recuperación de la infancia vibrante de un vivir más allá de las palabras y antes del gran desencanto. Entre desesperación y sueño, la voz poética de Lerro muestra una peculiar fuerza expresiva modulada con imágenes a menudo sorprendentes y con una sabia técnica rítmica y/o métrica, que la bella traducción española consigue casi siempre alcanzar con eficacia.

 

Alessandro Serpieri, 2010

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