Cosa spingesse Geremia a trascorrere ogni mattina lunghe ore ad osservare muratori e carpentieri all'opera nella piazza principale della sua città sfuggiva totalmente alle giovani menti degli studenti che lo prendevano in giro durante l’intervallo, dalle finestre del liceo scientifico Pitagora. Gli piaceva ascoltare il silenzio rotto dai rumori metallici del cantiere, e quei ragazzi lo disturbavano schiamazzando, tirando aeroplanini e palline di carta ai cani che abbaiavano infastiditi. Lo prendevano in giro: «non c’hai proprio un cazzo da fare…» gridavano ridendo. «Bestiole ignoranti» - borbottava Geremia tra sé e sé, agitando il suo inseparabile bastone in alto, verso le finestre della scuola. Non tutti possono comprendere la morbosa fascinazione generata dalle ruspe e dalle gru in funzione. È una cosa di esclusivo appannaggio dei bambini e dei vecchi. E Geremia era un vecchio bambino. Picchiava con il bastone sui tubi metallici dei ponteggi e cominciava: «cosa state facendo? -avete i caschetti? –fate attenzione!» e osservava per ore e ore i muratori e i carpentieri all’opera. Il bastone lo portava per vezzo, lo usava per portare a spasso, con eleganza, la sua mole da buongustaio, alimentata in anni di gite gastronomiche e vita sedentaria e per correggere una buffa andatura, ondeggiante, da pinguino. Camminava a piccoli passi, con le gambe un po’ arcuate ed i piedi vicini vicini, leggermente aperti sui lati, in una postura appena accennata, che si accentuava notevolmente quando affrettava il passo. Spesso brandiva il suo bastone per scacciare i cani randagi che vivevano presso il cantiere e che correndogli continuamente intorno, lo avrebbero fatto cadere prima o poi, pensava Geremia. Non si sapeva nel quartiere molto altro di lui; alcuni lo descrivevano come un rompiscatole, antipatico e scontroso. Gli operai, che lo conoscevano meglio, raccontavano che i modi bruschi e l’atteggiamento arrogante erano solo una corazza per nascondere il suo grande cuore che in alcuni casi, soprattutto con gli emarginati della società, diveniva addirittura enorme. La verità è che Geremia era solo un vecchio con la barba bianca che cercava a suo modo di amare gli altri e sé stesso con il cuore di un bambino. In gioventù era stato geometra capocantiere e aveva seguito parecchi lavori importanti; era in pensione da qualche anno, da poco prima di diventare vedovo. La moglie che aveva sposato in tarda età era stata una donna forte e taciturna, finita presto per una malattia che li aveva divisi dopo soli quindici anni di matrimonio. Se è vero, come ha detto qualcuno, che la sintonia di due persone si misura in quante spiegazioni non si ha bisogno di dare, i due, che passavano ore in silenzio ad ignorarsi dovevano essere davvero una coppia affiatata. Speranza si chiamava la donna, ma di fatto, appena si ammalò, abbandonò qualsiasi pensiero di salvezza e si lasciò serenamente attaccare da un cancro al pancreas, che la consumò rapidamente, senza troppo dolore. Geremia era da allora incuriosito da una bizzarra signora che si aggirava da qualche tempo per il cantiere e che aveva scelto di dormire proprio lì, tra quei tubi e quelle gru. Si trattava una vecchia barbona scorbutica e solitaria che viveva in simbiosi con un cane zoppo. È davvero terribile amare gli animali; quando in un cane si ravvisa un essere umano non si può fare a meno di vedere un cane in qualsiasi essere umano - pensava Geremia. A lui gli animali non piacevano, preferiva le persone, nonostante tutto. La donna passeggiava con il suo inseparabile cane lungo la strada e se qualcuno provava ad avvicinarsi o a sorriderle balzava in avanti con fare aggressivo e senza alcun preavviso se poi aveva l’ardire di provare addirittura a rivolgerle la parola, lei si fermava immobile a fissarlo con occhi sbarrati e risoluti; sembrava quasi “annusare” e soppesare ogni essere umano che incontrava sul suo cammino. Quando si incrociavano, Geremia coraggiosamente accennava un saluto, ma lei non lo degnava neppure di uno sguardo. La donna ogni mattina con il suo quadrupede bicolore, claudicante e debole di stomaco si fermava di fronte all’edicola, in fondo alla piazza e si sedeva su una panchina, fumava una sigaretta e disegnava con pietrine di gesso sui blocchi di ardesia ammassati nei pressi del cantiere. Era gracile e sporca, aveva i luridi e lunghissimi capelli intrecciati che le ricadevano sulle spalle incorniciandole il viso minuto. Gli occhi non glieli aveva visti mai da vicino. Puzzava di alcool e fumo, la puzza sì, l’aveva sentita più volte, era nauseabonda, ma non bastava a renderla sgradevole. Quella donna aveva un’eleganza innata e, a guardarla bene non era neppure malvestita: i suoi abiti, pur lisi e macchiati erano di ottima fattura, Geremia non l’aveva mai sentita parlare, ma l’aura di serenità che la pervadeva riusciva a fargli immaginare che in quell’anima persa dovesse abitare chissà quale voce soave. Ogni tanto, dopo aver girato in tondo intorno ad una fontanella, o ad un albero, si metteva a ballare in silenzio, accennando una sinuosa, morbida e lentissima danza, ad occhi chiusi. Era un incanto. Non chiedeva l’elemosina, non aveva un piattino né un cappello. nulla che potesse servire per raccogliere qualche spicciolo e a Geremia era sempre sembrato indelicato lasciarle una monetina, anche se, quando la sera buttava la spazzatura lasciava sempre un po’ aperto il sacco con, in cima, in bella vista, un panino avvolto ben benino nel cellophane, sperando che lei lo prendesse. Geremia non aveva avuto mai l’ardire di attaccare bottone. Avrebbe voluto chiederle tante cose, ma alla fin fine per lui non era così importante soddisfare le sue curiosità e vinceva sempre la sua voglia di rispettarla, perché era un gran sognatore e gli bastava questo: vederla ogni mattina e sapere che stesse bene, che avesse passato la notte che avesse ancora voglia di ballare. Ad ogni modo osservarla era diventato per lui, con la visita al cantiere, un momento importante delle sue attività quotidiane. Una mattina il cagnolino della donna si perse. Geremia capì immediatamente quello che era successo quando la vide accasciarsi sul marciapiedi, con le mani sulla testa. Prese coraggio. le si avvicinò con discrezione e si offrì di aiutarla a cercare il cagnetto, anche se quel giorno era freddo, si gelava addirittura. Si arrotolò la sciarpa intorno alla gola e cominciò a cercare il quadrupede, con un occhio rivolto alla donna che, pur muovendo disperatamente la testa a destra e a sinistra nella speranza di vedere il cagnolino, non lo chiamava a gran voce come Geremia si sarebbe aspettato. Ad un certo punto Geremia vide con la coda dell’occhio una rossiccia coda canina che sbucava da un tubo e corse a prendere quel cagnolino tremante. In un attimo il quadrupede zoppicante e infreddolito fu tra le braccia della sua ‘mamma’ che lo aspettava immobile. La sensazione di benessere che Geremia notò nello sguardo amorevole della donna al suo cane ritrovato, fu pura e silenziosa poesia. Dopo averlo sbaciucchiato e dopo averlo messo al riparo, al calduccio, sotto il suo logoro ma elegante cappotto verde muschio, la donna alzò lo sguardo verso Geremia e, aprendosi in un sorriso luminoso, si toccò più volte il petto. Poi unì le mani, se le portò alla fronte e chinò il capo, in segno di ringraziamento. Geremia era al settimo cielo e, avendo preso dopo la magnifica fine di quell’avventura il coraggio di parlare, dopo averle chiesto come si chiamasse quel bel cagnolino, le porse la mano, presentandosi con enfasi. Nell’istante in cui stava per pronunciare il suo nome, si accorse che la donna era muta. Imbarazzato continuò a sorridere mentre la voce gli moriva in gola. La donna lo salutò con un gesto gentile della mano e si incamminò verso il suo giaciglio di cartone stringendo il cagnetto in un abbraccio protettivo. La mattina dopo Geremia rivide il cane, in cantiere. I ragazzi tiravano piccole palline di carta con cerbottane improvvisate da penne bic cercando di colpirlo. Il cane stavolta non sembrava infastidito da quei ragazzi alla volta dei quali abitualmente non smetteva di abbaiare. Quella mattina annusava, scodinzolava, saltellando sulle sue tre zampe buone entrava e usciva dai tubi e, all’improvviso si fermò davanti a una cagnetta. Ecco perché era scappato! Geremia si voltò intorno e vide la donna che, seduta su un ammasso di mattoni forati osservava materna la scena e cercava di rendersi presentabile ravvivandosi i lerci capelli con le dita. Le si avvicinò. Sorrisero. La donna si accorse che Geremia stava per farle una domanda, gesticolando alla men peggio. Gli lesse negli occhi la curiosità e, con una pietrina di gesso scrisse su uno di quei mattoni: Elena. Felice così. Geremia provò un’improvvisa, inarrestabile, enorme tenerezza per quella creatura coraggiosa, con quegli occhi verde smeraldo e quel malinconico sorriso che incantava. Si alzarono e cominciarono a camminare insieme. Tornando verso casa con quella donna al suo fianco, anche lui pensò di essere felice. Passo dopo passo il suo respiro si alleggeriva. Sentì, dopo tanto tempo (forse quella bambina con i capelli ricci e le lentiggini alle elementari? I primi anni con Speranza?) il cuore che pulsava, il sangue che fluiva nelle sue vecchie vene e una improvvisa e inspiegabile allegria che si palesava nel suo sorriso ebete e capì, guardando la donna negli occhi, che in quegli occhi si sentiva bene. La amava, pensò. Era a conoscenza, naturalmente, dell’esistenza di amori reciproci, ma non aspirava addirittura alla fortuna che capitasse a lui, alla sua veneranda età, per giunta. Qualcuno da amare è un genere di prima necessità – Geremia lo aveva letto una volta in un bel libro – ed essere riamati è solo un ulteriore e meno fondamentale bisogno. Capì di avere a che fare con una donna estremamente forte, che non aveva davvero bisogno di nulla. Di null’altro che del suo cagnetto adorato. Lui era innamorato di lei, lei del suo cagnetto. Gli esseri umani sono fatti per amare le persone indifese, chi non lo fa probabilmente appartiene ad un’altra specie. I cani si prestano a questo tipo di legame strettissimo, a volte un po' morboso, con gli esseri umani. l'assenza di un linguaggio comune, rende impossibile verificare la reciprocità delle emozioni - pensò Geremia - il legame diventa talmente profondo, da rendere possibile una vera comunicazione, pur in assenza di un linguaggio verbale comune. Il mattino dopo Geremia si lavò, si sbarbò con cura, indossò il suo abito migliore, quello che lo faceva sembrare più magro ed elegante, si versò qualche goccia extra di colonia e, preso il bastone da passeggio, si incamminò come ogni mattina verso il cantiere dietro l’edicola della piazza, per controllare i lavori e parlare con gli operai, con la speranza di incontrare la donna che gli aveva fatto venir voglia di essere una persona migliore. Da lontano vide sulla strada il corpo della donna disteso sui cartoni. Il cane era accoccolato ai suoi piedi. Decise di entrare nel bar dall’altro lato della strada per svegliarla con un cornetto e un cappuccino fumante. Con quel dolce pensiero tra le mani attraversò la strada ma, avvicinandosi e chinandosi scoprì che Elena non respirava più. Il cane guaiva, senza muoversi. Gli mancò la voce. Non riuscì ad urlare per circa un minuto e poi chiese aiuto in un ultimo, disperato tentativo che aveva già capito essere inutile. Il giornalaio accorse, le tastò il polso. Non c’era più niente da fare. Geremia rimase a guardarla per pochi, ma eterni minuti, coprì quel corpo minuto e senza vita con il suo giaccone e attese l’ambulanza che la avrebbe portata in ospedale per l’autopsia. Triste come mai prima Geremia si diresse verso il cantiere. Il cane gli si affiancò e sembrava volergli suggerire una direzione. Corse avanti abbaiando e si fermò sulla pietra dove il giorno prima la donna aveva scritto con il gesso. Geremia accarezzò le parole sulla pietra e, voltandosi vide un’altra pietra. C’era scritto, con la stessa calligrafia fumosa e incerta: Artù. I ragazzi si affacciarono dalle finestre del liceo e lo presero in giro come ogni mattina, lanciandogli aeroplani di carta, gridando: «fatti una vita» e sputando palline di carta dalle loro cerbottane. Quella mattina Geremia non borbottava. Non si degnò neppure di alzare lo sguardo e verso le finestre. Era seduto, immobile e pensieroso, con la fronte appoggiata al bastone. Poi si alzò. Quella mattina i chiassosi studenti del liceo Pitagora lo videro allontanarsi piano. Con un cane al suo fianco. [ Premio Letterario Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, V edizione 2019, Opera seconda classificata nella sezione B (Racconto breve inedito) ]
|
|
|