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Antonella Cilento torna a proporre, a sessantacinque anni di distanza dalla storia del Montag di Bradbury, la distopia del mondo privato della lettura.

 

La società è caratterizzata stavolta da adolescenti tenuti sotto controllo attraverso l’ipnosi di una tecnologia fine a sé stessa e privata di contenuti reali, mentre gli adulti risultano del tutto snaturati, vuoti come sono di ogni autorità: non sanno più essere né genitori consapevoli né docenti convincenti.

 

A corroborare questo scenario devastato è una disposizione governativa che rimuove ogni possibilità di entrare in contatto con una più profonda consapevolezza di sé.

 

Non si può osare la visione diretta della morte perché essa va allontanata ed esorcizzata attraverso una sorta di rimozione collettiva, utile a non pensare oltre il proprio quotidiano presente e a non elaborare alcun lutto nel futuro.

 

Non si può vivere la spontaneità del più gratuito dei sentimenti umani, l’amore, perché occorre amare con un preciso scopo.

 

Infine, ma non ultimo, non si può accrescere il proprio sapere né porre in dubbio le proprie conoscenze, perché ormai è vietato leggere. Esiste persino un reato letterario punibile a norma di legge.

 

Vietato leggere, vietato avere idee.

 

In una società così mal messa sopravvivono, anzi proliferano – come nell’habitat più opportuno – camorra, malaffare ed ignavia. E quando attesissimo arriverà l’happy end, scopriremo – non senza una certa amarezza – che questo mondo disperato non sarà salvato da un genitore o da un docente (ce ne sono fin troppi, nel libro, che stanno lì ad autodenunciarci tutti, per essere diventati icone caricaturali di noi stessi), ma da una simpatica nonnina, scrittrice fumatrice e risoluta, che andrà a finire la vita con il suo amante sulla tomba di Stevenson, dopo aver salvato una coppia di ragazzine, ree di esser state ribelli al divieto di leggere.

 

Sono loro, Help e Farenàit, le giovani eroine di tutta la vicenda. Il riferimento a Sofia ed agli altri bambini  bonsai del mai abbastanza compianto Paolo Zanotti viene spontaneo. Quel romanzo descriveva uno scenario apocalittico e forse profetico: una Genova franata,  un tempo non troppo remoto in cui gli animali sono scomparsi, tutte le isole del Pacifico sono sommerse da un mare che sembra un mostro di plastica e  il sole brucia e fonde, tant’è che solo nelle serre si può vivere.

Qui invece, nel romanzo della Cilento, lo scenario è Napoli, una città marcescente e stramba, ridotta com’è ad uno strano ammasso di tecnologia e degrado, con auto volanti tipiche delle visioni di un futuro prossimo, ma anche moto truccate di assoluta attualità. E’ in questo mondo in necrosi che piomberanno improvvisi il Maestro e Margherita, i bambini di Dickens, la metamorfosi di Gregor Samsa, la passione bruciante di Cime tempestose, l’orrore dei delitti di Poe.

 

Atto di trasgressione suprema, la lettura diventerà, nell’epopea distopica di Help e Farenàit, rito iniziatico che si compirà attraverso lo scambio e la condivisione di un oggetto proibito: non una canna o un video hard, ma un libro.

 

I libri, ridotti a merce di napoletanissimo contrabbando, torneranno così paradossalmente ad essere ciò che forse per l’attuale generazione di adolescenti non sono più: strumenti di consacrazione all’età adulta, veicolo di affinità elettive, simboli trasgressivi. E nel loro essere rivelatori di verità intime, di dubbi profondi, di conoscenze “altre” questi vecchi rottami di carta alla fine vinceranno, come la nonnina in fuga verso Samoa col suo Venceslao o come gli insetti nella teoria evolutiva di Darwin.

 

Vinceranno, dicevamo, con la loro forza maieutica, tornando ad insinuare nei giovani qualcosa che sembrava perso per sempre, in noi e in loro: la speranza.

 

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