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Stralcio dal romanzo Jacob Rohault I giorni di Venezia

Una giovane donna fece il suo ingresso nel salottino e Laura Stellarìn si rivolse a Jacob, cambiando discorso. “Fulvia. La mia pupilla e nipote, figlia del mio amato fratello che ci ha lasciati ormai da tre anni.”
Jacob si alzò e rimase in attesa. “Vorrei che voi foste il suo maestro di Scienza e di Lettere. So bene che dovrebbe essere un uomo di chiesa a farlo, eppure preferisco così, tanta è la fiducia che m’ispirate.”
“Mi fate un onore del quale non posso che ringraziarvi.”
“L’intelligenza di Fulvia e il suo spirito puro vi saranno d’aiuto.”
Jacob la guardò. Il colorito del volto aveva un che di carnale che lasciava intuire una sensualità apparentemente nascosta in occhi di fredda indifferenza; là dove, invece, la bocca a bocciolo era come una promessa di piaceri.
Laura Stellarìn continuò:
“Potreste venire in questo palazzo ogni mercoledì e dedicarvi a istruire la mia Fulvia su quanto c’è di nuovo nel nostro mondo e, naturalmente, a migliorare il suo francese. Lei è seguita già dal suo confessore per la fede e per la dottrina. Con la vostra guida, io credo, la sua educazione sarà completa.”
Fulvia taceva: la sua espressione era di cortese ascolto.
Osservandola, Jacob si sentì a disagio. Naso retroussé, labbra simili a un frutto squarciato e, ai lati della bocca, due leggerissimi solchi, forse creati da una precoce diffidenza verso gli uomini e verso la vita, che contrastava con una morbida offerta di sé, palese nei movimenti delle mani diàfane. «Par endroits,» pensò Jacob, esibite come aduse ad avvolgenti abbandoni.
Fu tentato di rifiutare: avrebbe voluto dedicarsi all’edizione del Trattato e non a educare allieve per la vanità di nobildonne veneziane.
Decisiva fu la conclusione della proposta: “Naturalmente, il vostro impegno sarà ben retribuito. Se siete d’accordo, potrete cominciare dalla settimana prossima.”
Laura Stellarìn si alzò; Jacob prese commiato e uscì.
Non vide Camillo e decise di tornare a La Campana.
La pioggia era cessata. Le strade sembravano piene di animazione: molte case, che a Jacob erano già apparse tendenti all’impenetrabilità, avevano i portoni spalancati. Fiaccole, appese ai muri o tra le mani di persone vocianti, creavano riflessi quali immagini iridate su selciati e pareti. Tremule luci, ineguali penombre, sfoggi d’accatto. Accanto alla gondola di un venditore di dolci, uomini e donna che chiamavano e si rispondevano. Uno sciancato con bocca priva di forma passò muovendosi a scatti.
Si addentrò in strade buie, là dove figure di uomini divenivano man mano più rade.
Dentro una stanza illuminata da una candela infilata in un collo di bottiglia, una vecchia si toglieva dai capelli antiche crosticine.
Vapori impalpabili ristagnavano sugli stretti canali. Cominciava a riconoscere vicoli e campielli, angoli di palazzi e fittoni sbrecciati.

Laura Stellarìn gli aveva mostrato stima e simpatia; certamente, avrebbe avuto un appoggio anche da lei.
Nel frattempo sarebbe stato precettore per Fulvia. Conciliare il mestiere di aio con quello di filosofo teso a studiare ipotesi per la conoscenza del mondo: una sorta di molla a spirale che avrebbe applicato alla ruota del progredire dei giorni veneziani.
Nell’ora ormai tarda i suoi occhi azzurri guardavano oggetti resi vaghi dalle ombre notturne mentre, senza motivo apparente, ricordava quelli scuri di Fulvia. In essi non aveva visto cenno di autentico interesse, ma ambigua suadenza, un ammiccante pendant col movimento delle mani, agili ali nei luminosi saloni di Laura Stellarìn.


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