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Fisi, la dea dai verdi capelli

 

Colori più intensi del normale.

E voci. Nella testa e nel bosco. Un bosco che si svegliava; e con lui la collina e il mare.

Mare che odorava come sempre, ma sorprendendomi ogni volta, al risveglio, con quella sua aria salata, mentre Fisi, la bella, volgeva, magica e indolente, come fosse ancora in sogno, le sue spalle, intorpidite dalla notte, alle pendici finalmente verdi dei suoi colli.

Il suo occhio quieto, posato lieve a oriente, addolciva ritmicamente, con morbidi sguardi, e silenziosi, i chiari riccioli del mare, arruffati ancora, a quella luce, dal loro sonno notturno.

 

Facevo quell’anno l’Università a Fileti, nel profondo mezzodì della penisola, e quel mattino io, Ismaele, ragazzo del nord, scendevo la collina come tanti. Una sciarpa rossa. Uno zaino sulle spalle. E tutto m’appariva come un paradiso classico, un paradiso che, con la sua faccia più bella, volgeva verso il sole, sì che il suo occhio, di nuovo antico e profondo, poteva carezzare, intenso, le valli più ridenti di quella terra che un tempo si chiamava Magna Grecia.

E l’odore del mare, gli oleandri, gli ulivi, i miei pensieri e l'epoca in cui vivevo, mescolandosi, generavano in me un paradiso psichico, psichedelico quasi, che stava a metà strada fra l’antica Mileto e l’attuale Big Sur californiana, fra la primavera del pensiero filosofico e quella dell'Acquario.

Mi dovetti arrendere a Lei.

Per me la bellezza di Fidia, il pensiero d'Euclide e i dialoghi di Platone stavano ancora lì in quei sentieri scoscesi, dove prodigiosa mi avvolgeva, in quel momento, tanta malia, che portava il mio io a sentire tutto questo, invaso dall’inconscio, sedotto, vinto, plagiato.

Ma di nessuno, che non vedesse quello che io vedevo, si può dire che conoscesse davvero Fileti.

Splendide visioni, frattali incantati e luminosi, perché la venerabile Fisi aveva lì, in quel luogo incantato, davvero superato se stessa. E ora pareva che mi venisse incontro, mentre scendevo, con tutto il suo rigoglio e la perfidia di una donna mandata dagli dei.

Ma forse la vedevo solo io.

 

Incauto, ero felice di vederla. Di vedere chi, solo per togliermi ogni difesa, aveva reso Fileti, in quei giorni, una delizia per gli occhi. L’olfatto invece n’era turbato. Il piacere che traevo per quella via era troppo forte e, devo pur dirlo, indelicato. A maggio i fiori erano già esuberanti, per quasi troppa maturità, pur senza segni, ancora, di degenerazione incipiente. Eccitati dai violenti succhi di una terra generosa, mal diluiti da un’acqua scarseggiante, maturati anzitempo da calori tropicali, emanavano nel pomeriggio e verso sera un odore pingue, quasi osceno, che noi al nord non conosciamo.

A maggio pieno Fileti s’avvicina al punto di trionfo, e ahimè troppo presto lo tocca. Per questo vi sosta torpida, in questo punto così pieno, più a lungo che può, come una donna ancora bella, tanto che pare voglia non lasciarlo più. Anche quell’anno era come se il tempo a quel punto si fermasse; immobile e riluttante a proseguire verso lo sfacelo: dei fiori, degli uomini, delle loro vicende. Volti tutti a nascondere i primi segni sottili della pienezza avanzata.

E per un po’ lo potranno.

Finché un infausto giorno un occhio distratto vi si poserà di nuovo, sbigottito e improvviso; e vedrà la disfatta ormai trascorsa, con la sua morte già pronta.

Una vita si congeda.

Spinta fuori da nuovi bocci e nuovi fiori, pronti a entrare dal basso nel pentagramma della natura.

 

Scendevo dunque la collina, verso le solite lezioni. Ma non ero tranquillo.

Sentivo qualcosa di insidioso, pur senza immaginare che il pericolo stava proprio in tutta quella bellezza, ossia in Fisi, che quel giorno incrociava il mio destino, ormai purtroppo in sua balìa. Stordito dai suoi profumi, annebbiato dagli effluvi opulenti, andavo incontro a lei che prendeva possesso di me ad ogni istante, sempre più.

 

Fisi intanto risaliva il sentiero, ancora un poco addormentata. Vedeva da lontano dei giovani che scendevano. Addormentati anch’essi. 

Ad un tratto però qualcosa l’allarmò. Uno di questi era diverso. Aveva occhi febbrili, inappagati. Occhi penetranti, curiosi e un abbigliamento insolente, con quella sciarpa rossa sul nero del maglione!

E non solo. Accadde qualcosa di più. Lei vide, da più segni, che il giovane, per un attimo, s'era anche lui bloccato, immobilizzato, allarmato. Tutto il suo corpo immobile e il viso smarrito mostravano che l’aveva vista, smascherata. L’esuberanza della vegetazione aveva ai suoi occhi ripreso per un attimo le forme divine della grande madre, il suo vero sembiante.

 

Noi dobbiamo lasciarli qui, immobili entrambi. Lui che aspira a spogliarla, lei che si cela sempre più. Ma sappiamo chi dei due è il più forte e che Lei ha già emesso il suo decreto:

“Questo giovane ha una smodata avidità di sapere, una fame insaziata. E quel suo passo! Cammina con lo sguardo lontano e perso del predestinato. I suoi occhi febbrili, inebetiti dai libri, non annunciano niente di buono. Bisognerà fermalo. Anche con misure estreme, se dovrò”.

 

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