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al testo di Pietro Menditto
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Mi sono ricordato all’improvviso che circa vent’anni fa scrissi una poesia d’amore in cui l’amore come è normale non veniva nominato. Ricordo anche che la poesia era dedicata, come è normale, a una donna inesistente, come è per tutte le poesie d’amore. Per il resto non ricordo una sola parola di quella poesia ma di me mi ricordo – come fossi all’improvviso distolto da tutto il resto, come cercassi disperatamente carta e penna e un angolo adatto per mettermi a scriverla. Ma, ripeto, non ricordo una sola parola di quelle che scrissi. Quando l’ebbi finita, la poesia, la soddisfazione fu enorme. Dalla regione sconosciuta era arrivato il fantasma e mi aveva ordinato di usare l’inchiostro per i geroglifici del buio, per il miracolo dell’epifania su uno scadente foglio di quaderno. Circa vent’anni fa l’amore mi fece visita assumendo una delle sue infinite e incredibili forme per poi tornare nella regione sconosciuta per tramutarsi in circa vent’anni in un ricordo vuoto. E la novità è che ora guardo quel vuoto come si guarda una tomba, una fossa in un campo di morti che percorro in silenzio e quel vuoto mi strugge come una morte precoce, come un’estate sulla quale indugi ancora il cadavere dell’inverno, come tutte le vite che il tempo ha ingoiato e disperate chiamano nel vento, nell’ora più malinconica del giorno, nel presentimento della fine di tutto, che l’amore stesso è un ricordo della fine che cresce negli anni e viene a posarsi su noi come cala la sera, come sommessamente muore una primavera.
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