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al testo di Giovanni Baldaccini
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Lettera ad un sussurro. Desiderare Roma.
Certe volte sussurra. Chi ascolta si figura un lamento, un pianto, un bruciore di gola. Maledizioni a volte; altre, richieste; comunque un fondo senso di malore, come se fosse l’ultimo. Si prefigura un attimo di fine. Lì, nei canneti o il fitto del fogliame, fondo di bosco, eclissi, volto nascosto oscuro della luna. Pietre, quando città; o nuvole, che come tutti sanno, spariscono senza odore di tracce che non sia umido di pioggia o lampo asciutto: troppo breve la luce per cercare. Tuttavia si raddensa. Da un disperso unico, una folla che sembra circondare. E ti allontani, per non sentire più. Impossibile farlo.
Ho ricevuto lettere, visioni. Ho ricevuto sogni, quando il giorno scompare con la luce e la notte divaga tra le cose, lasciando percepire il suo silenzio. Era un sussurro: il mio. Un lamento, un sospiro cui replicare è difficile, a meno di concedere ragione. Discorreva di tempo derubato, di desuetudine, dimenticanza, abbandono. Elusivo ma intenso, si presentava come sofferenza per far sentire quello che provava. Non aveva parole: intuizioni. Un’inquietudine; un sollievo, a volte, quando il bisbiglio si faceva voce. Dava spazio a ciò che resta in fondo, all’escluso, all’inatteso, allo sbiadito. Ispirava nostalgia o qualcosa che vi somiglia; comunque indefinibile. Una mancanza ignota, dell’ignoto, dell’inutile, del vago; a volte dell’assurdo. Una strana speranza, senza pensare di poter avere. Allusione costante priva di pretesa, alludeva di sé, di me, di noi. Non so alludere nello stesso modo, ma devo una risposta. Lo farò come posso, rivolgendo parole; che leggerò per te, dato che tu non sai. E nel fraseggio di un insolito invio, mi scuso per la mia incapacità.
Ci è toccata in sorte un’altra lingua, un qualcosa che troppo spesso è ombra ma che rende capaci di parlare. Ci è toccata in sorte la possibilità di accoglierla, darle presenza, operare le trasformazioni che essa suggerisce. Un dialogo inizialmente privo di parole, questo ci è toccato, essenzialmente per poter parlare; un “conosciuto non pensato” (C. Bollas, L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma, 2001) da dover pensare e quindi esprimere. Significati da attribuire, dunque, perché l’oggetto trasformativo e l’ombra dove giace è essenzialmente un linguaggio che attende di esser detto. Un sussurro di libri, storia disattesa, secoli mancati: mi è toccato in sorte di sentirlo. Trarlo fuori dal crogiolo emozionale che non parla, renderlo pensabile, nel paradosso di un significato che è presenza di assenza. Dunque, rappresentare un pensiero di mancanza: la mia città disfatta e l’evaporazione di una cultura. Questo mi è toccato: desiderare Roma e quello che significava e non significa più. Desiderare allora l’impossibile, che il tempo in cui viviamo smentisce la sopravvivenza del significato. Pensarla, nell’averla perduta in modo irrimediabile. Bollas afferma che l’immagine della madre è anche un “luogo” psichico ed è veramente tale nel momento in cui trasmette significati. Mi è toccata una “madre” che non è più parola. E neppure silenzio: soltanto un disarticolato caos. Nel non luogo non madre, pensare mancanze significa allora pensare significanti mai acquisiti e tentare di elaborarli in un tessuto di senso. Immaginarmi orfano, se riesco a pensare anche il dolore e l’impossibilità di rispecchiarmi significativamente (Kohut) nel luogo per me più adatto a riflettermi: Roma. Se Roma si riveste di non senso, questa possibilità è perduta non solo per me ma per il mondo. Goethe affermava di essere rinato quando è venuto a Roma; a Freud tremarono le vene quando tentò di accostarsi a quell’ammasso d’anima che Roma era; Gregorovius lamentò dolorosamente di non poter continuare a lavorare in una città che ormai non era più la capitale spirituale del mondo ma soltanto la capitale degli Italiani e dichiarò che era tempo di scomparire, come Prospero nella Tempesta di Shakespeare (Gregorovius, Diari Romani, Club del Libro Fratelli Melita, Roma, 1892). Dall’Unità a oggi, ci hanno strappato significati, profondità, rispecchiamento; ci hanno regalato vacuità, degrado, insignificanza: un presente declinante nell’assenza. Questo è toccato in sorte: pensare un presente di mancanza. Paradossalmente, una mancanza che ha segnato la mia sorte e se oggi penso quel che penso, ci sono stato costretto dal degrado. In fondo, mi è toccato in sorte alfabetizzare (Bion) un’assenza e una dissoluzione per trovare uno spazio – anche un pensiero – per la mia estetica perturbante perduta; uno spazio – anche un ricordo – in cui “la natura del Sé si forma ed è trasformata dall’ambiente. Il piacere perturbante di essere abbracciati da una poesia, un quadro, una composizione o un qualsiasi oggetto” (C. Bollas, Ibidem, p. 42).
Roma è oramai un ricordo da pensare, un sentimento da rincorrere, un rimpianto. È diventata un circo, un baraccone, un fragore che puzza. Ti hanno ridotta a stomaco, un consumo senza nutrimento, una lettura muta. Superficie piatta, falsa coscienza, immagine da bere senza sete nel bicchiere del vuoto. Sei urla, fuggevolezza, un set scontato, una parvenza priva di stupore. E neppure una colpa, che avrebbe a presupposto una coscienza. Questo sei oggi: un’ignoranza. Eri senso, qualcosa che poteva “erompere dall’anima subitamente con spasimi e convulsioni. Può trascinare alle più strane eccitazioni, alla frenesia, all’orgasmo, all’estasi. Riveste forme selvagge e demoniache. Può precipitare in un orrore spettrale e pieno di raccapriccio. Ha i suoi precedenti e le sue manifestazioni primordiali crudi e barbarici, e ha la sua capacità di trasformazione nel bello, nel puro, nel gioioso. Può divenire la silenziosa e tremante umiltà della creatura al cospetto di chi – di che cosa? Al cospetto di quel che è il mistero ineffabile, superiore ad ogni creatura”. (R. Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 23) Questo è perduto. Nell’insignificanza del vuoto, le pietre sono pietre, i quadri soltanto vernice e l’anima un rifiuto. Non c’è più la parola. Edonisticamente sopraffatta dal nulla che ti abita, galleggi sguaiata sul sottofondo muto del disagio. Questo il tempo di cui ti abbiamo rivestita e tu, sperduta, non sei più neppure una tristezza. Se ne avessi il coraggio, vorrei guardare gli occhi di Madonne, un tempo stese lungo le tue strade, oggi rinchiuse. Vorrei coglierne il fondo, ma temo di guardare dentro i miei. Dal mio studio e il silenzio, scrivo di te, delle tue pietre sfinite, i tuoi palazzi colmi di storia e arte trasformati in uffici quando non abbattuti, i monumenti soli nella folla tra bancarelle e grida, le tue strade ubriache, i tuoi quadri rinchiusi in musei frettolosi o chiese che nessuno frequenta se non per pochi cenni di scongiuro. Ti scrivo: la tua definitiva conclusione. Con te, il mio desiderio. Che penso nella sera del passato, senza desiderare altro.
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