Dalla parte giusta Ce l’avevo fatta, s’era trattato di scendere dal palazzo, raggiungere i portici all’ombra come facevo sempre e anziché svoltare per la solita strada, attraversare in fretta la piazza assolata, lì c’erano sempre taxi. Ero salito sul primo della fila e avevo convinto l’uomo a portarmi alla stazione prima che avesse il tempo di guardarmi le scarpe e dirmi che potevo andarci anche a piedi, visto che stava solo a trecento metri. Era un vecchio riflesso condizionato di chi era nato nel paese di frontiera e, anche se non c’era più nessuno che lo valicasse a piedi e da clandestino, lo sguardo talvolta cadeva ancora in basso. Ma il mondo era cambiato, scarpe infangate o rotte non ce n’erano più, e prendere le misure all’altro era sempre più difficile. In stazione c’è parecchio movimento già di primo mattino, due donne dalle facce scure e lo sguardo livoroso, con quattro bambini al seguito che strillano, sono sulla banchina accanto a me. I bambini sono sporchi e affamati e hanno ancora fra le mani i palloncini mezzo sgonfi del Casinò dove con ogni probabilità le loro mamme si sono giocate fino all’ultimo spicciolo. Di tanto in tanto durante la nottata si saranno date il cambio, una con i bimbi e l’altra a puntare, sognare e perdere ai tavoli da gioco. Sul treno me le ritrovo nel mio scompartimento, perché avendo visualizzato così vividamente le ultime ore della loro avventura non c’è modo di non farle materializzare accanto a me. So che non dovrei farlo eppure ci casco sempre, e più mi concentro sulla sgradevolezza degli esseri umani, più me li ritrovo davanti. Le donne, manco a dirlo, non hanno prenotazione e si siedono qui di proposito, hanno annusato come belve fameliche la preda da aggredire, magari solo a parole, e sputandole addosso il loro astio probabilmente pensano che potranno rifarsi un poco della sfortuna avuta al gioco, della vita grama, dell’ingiustizia del mondo. Percepiscono come sangue di animale morente la mia incapacità di battagliare al loro stesso livello e infatti appena uno dei bambini cerca di prendere la mia valigetta con il MacBook e io faccio per sottrarla una di loro comincia a inveire contro di me. Il controllore che sta passando si affaccia mettendole a tacere di colpo e, appurato che quelli non sono i loro posti, le invita ad alzarsi. Allora, quelle cominciano a inveire contro di lui accusandolo di abuso contro povere mamme indifese con un tono ringhioso che sembra risalire dalle viscere, che deve essere stato allenato per lungo tempo e che, più spesso di quanto si possa pensare, ottiene un risultato, come adesso, perché mi alzo io e recuperando trolley e valigetta dico al controllore che sono disposto a cambiare scompartimento. La mia uscita non gli va a genio, l’uomo mi guarda quasi deluso, si capisce che lui resterebbe qui a battagliare volentieri, perché questo è il suo mestiere e questo è il suo treno e perdio non sarebbero state quelle donne a portare scompiglio nel suo turno odierno, avrebbe dato loro esattamente quello che meritavano, un altro posto, in un altro vagone, meglio ancora su un treno per Marte ché – per quanto il bellicoso e rodato piagnisteo miri a smuovere il senso di colpa altrui, a ottenere benefici immeritati e a uno sdebitarsi generico da parte di una comunità che, di solito, non ha nessun debito concreto con loro – a lui non smuove un bel niente, tranne la voglia di staccare una bella multa, pur sapendo che non l’avrebbero pagata mai, ma che nondimeno sarebbe andata ad aggiungersi alla pila d’insoluti sulla loro credenza. L’uomo alza gli occhi al cielo poi, sospirando, venga con me, dice. Mi porta molto avanti, in uno scompartimento a uso del personale, prende un thermos argentato da uno scaffaletto e mi versa un caffè forte e dolce. Poi mi chiede perché mi sia arreso così facilmente, e se è stato per un senso di pietà, specificando subito che a quelle donne io non dovevo niente, quelle non compravano da mangiare ai figli pur di andare a giocare al Casinò. Io per un attimo resto interdetto perché non è certo per pietà che mi sono spostato, l’ultima volta che avevo provato pietà era stato in un’era geologica diversa e l’avevo riversata completamente su me stesso, non ne avevo più un briciolo per nessuno, ma soprattutto mi colpisce il suo modo di definire il mio comportamento, che è come un’illuminazione per me, perché è davvero questo che io facevo sempre, arrendermi facilmente. Quattro anni di terapia e nemmeno una volta mi era stata data un’indicazione così chiara, non che lo psicologo parlasse molto, ma si supponeva che di tanto in tanto si rendesse necessario un suo intervento, anche minimo, per riportare il racconto in carreggiata se divagavo inutilmente, o per tirare quantomeno le fila del discorso, trarne un segnale, una piccola, personalissima pietra miliare cui fare riferimento a tempo debito, cavandone almeno una parvenza, per quanto precaria, di punto fermo. Invece, no, mi aveva lasciato cuocere nel mio brodo primordiale di frustrazioni e fobie varie, e forse l’unica vera utilità di quei quattro anni era stata tutta nello spingermi fuori di casa e trascinarmi alla seduta settimanale per parlare di cose che per tanto tempo avevo tenuto segregate dentro di me. «Non sopporto le grida.» rispondo, ma questa è solo una delle tante cose che non sopporto, un sunto, neanche tanto rappresentativo, perché farei prima a dire che cosa riesco a sopportare, che in definitiva è molto poco. Lui mi guarda con un’espressione triste, sembra avere la capacità di vedere oltre le parole e all’improvviso mi sento nudo e senza difese, mi assale una commozione che non credevo più di poter provare, e pena per me stesso, per la mia vita asettica e solitaria, per tutto ciò che poteva essere e non era stato e mi viene una gran voglia di piangere, abbandonarmi al destino accada quel che deve accadere, perché controllare tutto non è possibile, è solo un’illusione e oltretutto è inutile se una domanda sola riesce a mettermi k.o. L’uomo non insiste, mi lascia in pace e riprende il suo giro; il treno attraversa lentamente la città e poi accelera, gettandosi sulle rotaie del lungolago. L’acqua risplende di bagliori increspati nella luce di primo mattino, sopra di me Vetta San Salvatore e sulla sponda opposta il Casinò di Campione d’Italia, un dinosauro di pietra, maestoso e abbandonato. Se fosse stato ancora aperto è lì che quelle donne sarebbero andate a giocare, forse non le avrei incontrate, e io non mi sarei arreso una volta di più. Quando il treno arriva sul ponte che taglia il lago a metà guardo alle due rive fino a che la strada non si mette di mezzo. Fuori dal finestrino il mondo sembra avere una sua coerenza e io posso ripensare a ieri sera, a quando il mio telefono aveva squillato.
Erano quasi le undici e sullo sfondo verde lampeggiava un numero sconosciuto. Avevo pensato a uno sbaglio, il mio numero privato lo conoscevano giusto tre persone e non avevo voglia di rispondere, avevo aspettato che smettesse ma dopo un attimo aveva ricominciato a squillare, pertanto continuare a ignorarlo m’era risultato più difficile che affrontarlo, e alla fine avevo risposto. Era un avvocato. Chiamava per dirmi che mio padre era morto pochi istanti prima all’ospedale di Mantova. Che quelle erano le disposizioni, avvertirmi appena tutto fosse finito. Ero restato muto e in bilico come uno concentrato a mettere un piede davanti all’altro su una corda tesa, ma la cosa non mi apparteneva affatto, lo sapevo bene e non c’era niente da capire, le persone muoiono continuamente: noi tutti, attualmente, stiamo morendo in milioni di modi indefiniti prima della grande prova finale. Eppure, a un livello più profondo, mi apparteneva perché già affioravano ricordi che credevo sepolti, fatti marginali del mio passato che forse non lo erano, né allora né adesso e, anche questo avrei dovuto saperlo bene. L’avvocato aveva atteso una reazione o una parola che non arrivavano e alla fine mi aveva domandato se fossi ancora lì, se sarei andato al funerale. Sarei andato certamente, avevo cercato di tagliare corto, avevo bisogno di parlare al più presto con mia sorella anche se lui aveva detto di averla già avvisata. Voleva essere sicuro che entrambi fossimo presenti perché subito dopo il funerale avrebbe aperto il testamento, come era nei desideri di nostro padre. «A domani, allora», avevo detto, ma senza nessuna partecipazione, era solo una reazione automatica di buona educazione, la mia, solo un modo per chiudere quella conversazione, riacquistare lo spazio minimo sufficiente alla mia personale rielaborazione dell’accaduto. Perché io rielaboravo continuamente, catalogavo etichettavo e riponevo in un virtuale archivio interiore tutto ciò che mi accadeva. Alcuni fatti predominavano su altri per la loro impetuosità interrompendo il flusso tranquillo della vita, creando punti di rottura, e tutto ciò che era stato fino a un attimo prima non era più. Improvvisamente c’era un prima e un dopo. Quando avevo 15 anni, un giorno avevo preso la bici e sotto al sole ancora bruciante di settembre avevo attraversato la città fino al Castello e fatto la ciclabile sul Ponte di San Giorgio per raggiungere gli amici al parco. Ci eravamo stesi sulla riva opposta alla rimessa delle barche e, assaporando l’ultimo vero ozio prima del nuovo anno scolastico, guardavamo la motonave portare gli ultimi turisti della stagione sul Lago di Mezzo. Qualcosa nel loro modo di fare attirò la nostra attenzione, poi uno di loro si sporse sulla sponda e ci gridò di tornare a casa. Prima uno e, poco dopo, un secondo aereo si erano schiantati sulle torri gemelle a New York. Era lo schianto del secondo aereo che aveva cambiato la percezione di sicurezza del mondo, invalidando in pochi istanti la teoria delle probabilità e la scienza della sicurezza nazionale del paese più potente del pianeta. Significava che nessuno era al sicuro in nessun posto, là a New York, lì sul Mincio era lo stesso. Ricordavo quel giorno come se fosse accaduto pochi istanti prima.
Quando avevo chiuso la telefonata, ero restato con il telefono in mano a fissare la stanza e per la prima volta mi ero accorto del suo ordine maniacale per l’unico oggetto fuori posto in una simmetria altrimenti perfetta, il vino bevuto a metà lasciato sul tavolo. Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto, mio padre diceva così e me lo ero ricordato solo in quell’istante. Ero sempre stato abbastanza certo che non si riferisse all’ordine degli oggetti, che intendesse altro, ma io non ero mai riuscito a capire davvero. Se avessimo avuto più tempo, in quel tempo, gli avrei chiesto tante cose, tutte quelle che lui avrebbe avuto voglia di dirmi e anche di più. Tanto tempo fa, quando ancora ero suo figlio. Stavo finendo di bere dopo aver messo in ordine la cucina, quando era arrivata la telefonata e adesso avevo di nuovo un prima e un dopo. Mio padre era morto ma non c’era più nessuna ciclabile sul ponte da percorrere al contrario, sotto al sole e alla brezza del lago. Nessuna casa da raggiungere, per mettermi al riparo. Così avevo tolto il bicchiere dal tavolo e buttato il vino, l’avevo lavato e messo sul ripiano ad asciugare con la stessa sequenza di gesti ordinati e razionali di sempre che però all’improvviso mi si mostravano in tutta la loro ossessività nevrotica, come se ci fosse un altro me appena discosto da me che, guardandomi con occhio severo, mi induceva a considerare il contesto in cui compivo le mie solite azioni. Tanto è vero che guardando la stanza continuava a esserci qualcosa che non andava. La simmetria, l’equilibrio non c’erano più. Perciò ero andato in camera e avevo iniziato a preparare la valigia, ma il me appena discosto da me era ancora lì e metteva in crisi anche la mia consueta metodicità e, sebbene l’avessi riempita di oggetti che credevo potessero tornarmi utili, un attimo dopo mi ero reso conto che non erano per niente indispensabili, pertanto avevo cominciato a eliminarli, anche se sentivo un vero dispiacere nel separarmene e solo quando il telefono aveva squillato di nuovo mi ero ricordato di mia sorella. Era stato in quel momento che avevo realizzato quanta strada ancora dovevo fare, e chissà se sarebbe finita mai, se anche il mio giudice interiore s’ingannava sulle priorità della vita o quanto meno sulle priorità di un comune essere umano considerato normale. «Emma, stavo per chiamarti», avevo mentito. «Hai sentito l’avvocato?» «Sì, sto preparando la valigia.» «Io non vengo, Luca.» «Invece dovresti, ci saranno delle formalità da assolvere, immagino che lui avrà sistemato ogni cosa prima di andarsene.» «Avrà lasciato tutto a qualche fondazione, vedrai.» «È probabile, ma almeno la chiuderemo una volta per tutte con lui, vieni con me.» «Non me ne importa niente, Luca.» Non era vero. Il niente di cui parlava mia sorella era lo stesso mio, pieno di tante di quelle cose da lasciare spossati, infatti non avevo avuto la forza di puntualizzare. «Partirò domattina, Emma, se ci ripensi fammi sapere.» «Certo, e…Luca?» «Sì.» «Siamo liberi?» «Forse.» Scendo alla stazione di Mantova intorno alle dieci e prendo un taxi per andare dritto all’ospedale ma quando l’auto si lascia il centro alle spalle, cambio idea. All’improvviso non ho più nessuna urgenza di arrivare. Chiedo di fare inversione, prendere per il lungolago dei Gonzaga e risalire verso piazza Arche. Non torno nella mia città da sette anni, da quando è morta nostra madre. Casa sua si trovava nella zona del vecchio ghetto ebraico e l’avevamo venduta subito dopo la sua morte. Ora ci passiamo davanti a un’andatura da centro storico, la facciata è stata tinteggiata di un giallo pallido e le persiane sono diventate celesti. Dopo il divorzio era diventata la sua tomba da viva e noi, devastati quanto lei, l’avevamo seguita camminando in punta di piedi e in penombra, perché la luce le feriva gli occhi e ogni rumore la inquietava. Adesso ho come la sensazione che l’eco delle sue lacrime abbia finalmente smesso di rimbalzare sulle pareti di quelle stanze, che un ordine delle cose più naturale abbia preso il sopravvento. A poca distanza dal ghetto, lungo vicolo Sotto Riva c’è casa di nostro padre. Non so se ci abitasse ancora, non avevo più voluto avere nessun contatto con lui. Mi viene voglia di rivederla, sia pure da lontano. Chiedo al tassista di aspettarmi, mi incammino rasente ai muri verso vicolo Secondario, evitando l’ingresso principale. La città sonnecchia ancora nelle viuzze strette dove si insinua a malapena qualche raggio di sole estivo. In un attimo sono a Sotto Riva, dietro a Villa Carme. L’acqua scorre con lentezza fra le vecchie abitazioni e ha lo stesso odore dolciastro di un tempo; percorro la passeggiata stretta fra il muro del giardino e il parapetto del fiume fino ai due gradini che innalzano il passaggio spezzandolo nei due tronconi di Sotto e Sopra Riva, poi appoggio le mani sul muro di cinta del mio vecchio giardino. Quando avevo tredici anni e a casa erano cominciate le liti fra i nostri genitori, non rientravo a casa se da quel punto d’osservazione che mi ero scelto non capivo che era tutto tranquillo. Ora che posso sporgermi senza più nessuna apprensione tutto mi appare stranamente diverso, anche se in effetti nulla è cambiato. Il patio fra le piante, la cura dedicata alle aiuole, il piccolo loggiato ammantato di rose, la scala d’ingresso con un vaso bianco ogni due gradini e il rumore in sottofondo che arriva dalla città, tutto mi si mostra per quello che effettivamente è, un mondo perduto di cui un tempo avevo fatto parte e da cui mi ero escluso, per forza di cose, di scelte, perché la vita chiede continuamente di parteggiare e così avevamo fatto io e mia sorella. Se abitava ancora qui, chissà quando ne sarà uscito per l’ultima volta, penso, chissà chi avrà salito e sceso le scale con lui in tutti questi anni, perché proprio non riesco a immaginarmelo da solo. Sono domande che non so da dove affiorino, come fili d’erba che ho tentato inutilmente di seccare e che rispuntano con ostinazione e senza ragione fra le pietre sconnesse della mia memoria. Perché anche a me, come a Emma, non importa niente di mio padre. Poi il telefono mi riporta alla realtà, Emma ci ha ripensato e si trova già all’obitorio. Si è fatta accompagnare da Leonardo, il suo fidanzato, è agitata, teme che io non sia più partito. Allora torno di corsa alla macchina e in pochi minuti arrivo all’ospedale. Consegnandomi il bagaglio, il tassista mi guarda in modo serio e asciutto, mi porge le sue condoglianze, sembra capire quello che provo almeno cento volte meglio di me e mi sento di nuovo trasparente e vulnerabile come sul treno, come se tutto il mondo riuscisse a vedere senza fatica di più e meglio di me che invece arranco, e incespico ciecamente in una vita che sembra fatta solo di erte e crinali, così difficili da affrontare. Oppure potrebbe essere solo la mia immaginazione che mi fa vedere cose che non esistono. Emma è davanti all’ingresso circondata da alcune persone, appena mi vede mi viene incontro e mi abbraccia forte come quando eravamo bambini e veniva a rifugiarsi da me. Da quando era andata a stare a Milano con Leonardo mi ero sentito sollevato. Prima di quel momento vivere insieme non aveva fatto altro che tenerci ancorati al passato. Avevamo la necessità di allontanarci per inventare di nuovo le nostre vite senza essere l’uno il testimone imbarazzato dei tentativi dell’altro. La sentivo al sicuro e questo mi aveva fatto andare avanti con più leggerezza. Mi occupavo di grandi patrimoni per una banca di Lugano. Raramente vedevo i clienti, facevo stime, presagivo scenari, compravo e vendevo pacchetti azionari come se scambiassi caramelle, concentrato più sui tratteggi geometrici delle tabelle finanziarie che su quello che mi accadeva intorno. La previsione era il mio mestiere, la matematica astratta mi rassicurava. I numeri, le formule e persino le ipotesi erano più confortanti del mondo reale. Molti ritenevano il mio un campo minato, subdolo, traditore. Io pensavo le stesse cose della vita vera. La solitudine era il mio elemento, lo spazio sufficiente e necessario per avere il controllo totale sulla mia esistenza e le abitudini mi facevano più compagnia di qualsiasi relazione umana. Emma mi presenta alle persone che sono con lei, c’è l’avvocato che mi ha chiamato ieri sera, gli dispiace conoscermi in questa circostanza, ma così è la vita, deve sorprenderci sempre, dice. Lo ringrazio mentre gli stringo la mano e mi chiedo che cosa pensi di me e mia sorella, quanto effettivamente sappia di noi. Poi si fa di lato per presentarmi a una donna piuttosto avanti con gli anni che fino a quel momento è restata in disparte a guardarmi. La donna ha bellissimi occhi scuri vagamente familiari, i capelli grigi tagliati in un caschetto corto, mi prende la mano fra le sue e la trattiene per qualche istante: «Sono Miryam», dice, «ero la compagna di tuo padre». I suoi occhi sono sottolineati da occhiaie profonde. Emma aggiunge: «Miryam è anche la madre di Leonardo». C’è dolcezza nella sua voce. «Leonardo, il tuo…» «Sì.» risponde Emma in un soffio. Non ci capisco più niente, il mondo ha davvero deciso di andare avanti senza di me oppure sono stato io a voler restare indietro senza preoccuparmi delle conseguenze. Le guardo in silenzio, loro due davanti a me eppure così distanti. La mia mente avanza per non sequitur, mi tornano in mente vecchi ingrandimenti di foto scattate da mio padre, particolari di occhi che tappezzavano le pareti del suo studio. Mi sembra di cogliere significati superficiali, di non riuscire ad afferrare le implicazioni dell’insieme. «Forse dovrei entrare, adesso.» dico. Emma mi guida all’interno della stanza, ci sono persone che chiacchierano a piccoli gruppi, appena entriamo abbassano le voci a un bisbiglio, qualcuno china il capo in segno di saluto, fra loro c’è anche il direttore della banca per cui lavoro al quale non avevo affatto spiegato il motivo della mia partenza. E nostro padre è lì, in una bara di legno scuro coperta soltanto da un velo impalpabile. Le sue mani hanno dita esageratamente lunghe che sembrano di cera. Il suo viso, ancora di una bellezza struggente, è scarno e affilato, i lunghi capelli neri sono raccolti sulla nuca e sembra sereno come un uomo che stia solo sognando. Né kippah né croci per lui, nessun Dio, nessuna fede a fargli strada nel suo ultimo viaggio. Se potesse ancora parlare di sicuro direbbe che non ha alcun senso parlare di ultimo viaggio, i morti non viaggiano, Luca, i morti finiscono e basta. Tuttavia c’è qualcosa di sacro in lui e faccio fatica a ricordarlo nei momenti di dissidio con nostra madre. Lei folle di gelosia per quest’uomo al punto da non sopportare di vivere con lui né senza di lui, al punto da non sopportare la vita stessa e di farla finita gettandosi dal terzo piano. «Era malato?» chiedo piano a Emma. «Sì, ma per fortuna è stata una cosa veloce.» Mi volto a guardarla per capire se ho di fronte la stessa persona che ieri sera mi parlava al telefono, ma lei insiste: «Sì, ci sono tante cose che non sai di nostro padre. Ci siamo sbagliati, Luca, abbiamo sbagliato con lui», mentre parla le sue guance sono rigate di lacrime. «Nostra madre è morta a causa sua», trattengo a fatica la rabbia. «Non è così!» dice Emma che si è ricomposta e il suo tono non ammette repliche. Almeno per il momento, perché dovrà spiegarmi dettagliatamente come abbia fatto a cambiare opinione su nostro padre nell’arco di una notte. Sono sbalordito e arrabbiato, mi sento tradito nel mio ultimo baluardo di conforto, non ho più nessuno al mondo che possa capire quello che provo, che possa giustificare quello che sono. «Che cosa sai che io non so, che cosa ti ha detto Leonardo?» «So tutto, ne parleremo più tardi a casa nostra.» «Casa nostra?» «A Villa Carme, casa di tutti noi, capisci?» Leonardo torna verso l’una, ha già sbrigato le formalità per la cremazione. Mi viene incontro e mi abbraccia con il calore e la naturalezza delle persone a posto con il mondo, che non conoscono le torture di una mente in guerra con se stessa. «Ora vai a casa con mamma, Luca. Restiamo io ed Emma qui, vai.» «Magari più tardi», dico, «ora avrei bisogno di parlare con Emma». «No, è con mia madre che devi parlare, ora. Vai», ripete. Allora, esco dall’obitorio nella luce accecante del giorno, Myriam mi aspetta con la macchina in moto. Per strada non cerca di riempire il silenzio in nessun modo e io osservo i colori della città estiva, gli alberi ombrosi di via Pompilio, la leggera foschia che si alza dal fiume in lontananza. Ho un milione di domande dentro e non so decidermi a farne neanche una, guardo il suo profilo, il dolore che s’indovina appena sotto la superficie. Lei si volta e mi sorride. «A quest’ora i parcheggi vicino a casa saranno tutti pieni, ci dovremo accontentare di lasciare l’auto in piazza, fare qualche passo a piedi.» «Per me va bene, Myriam.» «Gli spazi vuoti non ti fanno più paura», è una constatazione, la sua. «E tu che cosa ne sai delle mie paure?» Ma lei non risponde, resta in un silenzio che è una specie di pausa, un tempo sospeso e immobile come quello di un calciatore che si prepari a tirare un calcio di rigore, o di un esercito pronto all’ordine di attacco. Mentre io sono disarmato, in attesa. Ma nessuno qui vuole attaccarmi, nessuno vuole farmi del male, lo capisco con il mio abituale ritardo. «Leonardo vi teneva aggiornati su di noi.» «Aveva il compito di proteggervi.» «Non era a Lugano per caso?» «Neanche voi eravate a Lugano per caso.» «Vuoi dire che mio padre ha pilotato tutto? Anche il mio lavoro?» «Tuo padre sapeva che stavi cercando un modo per andartene da Mantova insieme a Emma, ha solo cercato di farvi stare in un posto sicuro, tutto il resto è opera tua, delle tue capacità. «E fra Leonardo ed Emma, è una farsa?» «Ma come puoi pensare una cosa del genere? Leonardo avrebbe dovuto essere invisibile, non doveva accadere che si conoscessero, ma è successo. Allora Leonardo avrebbe voluto raccontarvi tutto, ma tuo padre non gliel’ha permesso. È per questo che ha voluto trasferirsi a Milano con Emma, allontanarsi da te, lasciarti veramente libero.» «Ma non lo ero, giusto? Era una libertà vigilata, per così dire.» «Preferisco pensare che fosse una libertà protetta. Vostro padre vi amava e sapeva bene che davate a lui la colpa per la morte di vostra madre, sapeva anche che il vostro odio forse vi avrebbe risparmiato un dolore più grande.» «Ma è così che doveva andare, no? Noi dovevamo scegliere da che parte stare.» «Perché?» «Perché abbiamo scelto nostra madre?» «Perché avete dovuto scegliere?» «Per stare dalla parte giusta.» Si tratta di questo, in fondo, solo di questo e mentre lo dico so per certo che la mia vita è cambiata in quel preciso momento, travolgendo la vita di tutti e cambiando il nostro destino. E mentre abitavamo con nostra madre, contagiati dalla sua depressione, non vedevo altra alternativa per noi che stare insieme a lei, soffrire con lei. Nostro padre continuava a chiamarci, invitarci a stare da lui almeno per un paio di giorni a settimana, voleva che respirassimo un’altra aria, voleva portare nostra madre da un medico, voleva che provasse a curare la sua malattia, ma lei si rifiutava di credere di essere malata, lei era solo distrutta per ciò che era accaduto. «Ma non esisteva una parte giusta», dice Miryam, e la sua voce è poco più che un sussurro poi, con più fermezza: «Ognuno aveva le sue ragioni che non avevano niente a che fare con voi, certo era difficile da capire mentre eravate così giovani, ma poi? Con il tempo, crescendo, perché non avete mai voluto sapere?» Gli alberi lungo la strada proiettano ombre e luci veloci fra le fronde e spezzettano i miei pensieri in milioni di fotogrammi. «Poi abbiamo fatto l’abitudine a odiare», rispondo e comincio a vedere chiaramente che errore era stato, che errori madornali avevamo commesso, tutti quanti. Mi sentivo truffato e vuoto, come aver scommesso contro la mia possibilità di essere felice e aver vinto, perdendola per sempre; come se nulla di quanto avessi fatto, il poco o il molto nella mia vita, avesse più alcun valore. Ma allo stesso tempo sentivo di essere stato amato, e forse le azioni erano state scorrette e sbagliate ma intuivo che le intenzioni non avevano mai smesso di essere buone, che l’amore sa trovare milioni di logiche diverse per manifestarsi. E forse cominciavo a capire che cosa fosse quel dolore più grande di cui parlava mio padre, era quella necessità improvvisa e impellente di rimediare a tutto il male, annientarlo e ricominciare da zero cercando di essere una persona migliore, concedermi finalmente la possibilità di amare e avere coscienza, nello stesso momento, che non c’era più nessun modo al mondo di tornare indietro.
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