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Dalla Finestra


Dalla Finestra

(Immagine e testo: Samuela Cittadini)




Che importava chi ci sarebbe stato, importava solo che ci fosse una finestra, meglio una porta-finestra, ma anche una piccola avrebbe funzionato, stante la giusta altezza dal suolo. Non più che a un metro e venti da terra o non ci sarebbe arrivato. Stirarsi, poteva, quel tanto. Ma non avrebbe resistito a lungo, soprattutto non avrebbe goduto dell'incanto del mondo là fuori, godimento che presupponeva un adeguato livello di rilassatezza psicofisica, non raggiungibile altrimenti se non da una posizione comoda. La gente ricorreva a cose complicate quando si trattava di rilassarsi, a meditazioni a testa in giù in bilico sul mignolo di una mano, a percorsi ancestrali nelle profondità di boschi impraticabili o, per quanto ne sapeva, a sballi psicotropici annientatori per un poco d’ogni disagio, solo per riscoprirlo dietro l’angolo, aumentato di una tacca, un momento dopo. O, forse, no, che ne sapeva lui, in fondo, di sballi? S’era mai sballato, lui? No.
Una posizione comoda sarebbe stata più che sufficiente per chiunque, se solo chiunque si fosse dato la pena di fermarsi un attimo, disertare la corsa e scendere da questo cavallo indemoniato, altrimenti noto come mondo.
A lui bastava una brava finestra utile. Il cicaleccio degli astanti lo annoiava tanto da fingersi quasi cieco – alibi testato con successo altre volte – pertanto era raro che qualcuno gli rivolgesse la parola. In queste sale d’aspetto d’ospedali di circoscrizione il tempo d’attesa poteva allungarsi così a dismisura da perderne per sempre la cognizione. Non voleva parlare con nessuno delle stesse cose di cui s’era parlato già mille volte. Gli venne in mente però che quelle stesse conversazioni non avrebbe potuto fare a meno d’ascoltarle. Passivamente, le parole lo avrebbero colpito di rimando con la patetica ottusità che assumevano quelle stra-dette, ché a forza d’esser ripetute perdevano d’ogni significato. Perciò pensò bene la prossima volta di rendersi pure sordo.
La sala era quasi piena. Suo figlio, che lo accompagnava sempre quando aveva una visita, manovrò con esperienza la sua carrozzina verso lo spazio libero davanti alla finestra (di perfette dimensioni) e si sedette su una sedia accanto. Uno scambio di informazioni fra gli astanti, per capire a che ora fossero gli orari dei rispettivi appuntamenti, fu tutto. Niente cicaleccio né soliti convenevoli, né commenti sul tempo. Solo, una donna, si lamentò del dolore alla gamba per tutti i giri che aveva dovuto fare prima di trovare il reparto, e tutto per colpa di quell’inetto allo sportello che ignorava, a quanto pare, che il reparto giusto si trovasse proprio al di sotto del suo.
«È stato molto fortunato», disse un’altra donna, probabilmente quella che leggeva un libro sullo smartphone e che aveva visto per un attimo quando le era passato accanto.
«È stato fortunato e anche io lo sono stata», continuò la donna, «perché dopo tutta la strada inutile che ci ha fatto fare, se lo avessi incontrato di nuovo gli avrei messo le mani al collo. E avrei stretto, pure».
Allora, le due donne erano scoppiate a ridere e non sapeva bene perché ma anche a lui era venuto da ridere.
Fuori dalla finestra la collina si asciugava dopo la pioggia sotto al sole d’Aprile, e avrebbe continuato ad asciugarsi e a inverdire anche se lui se ne fosse andato. Così tolse gli occhiali scuri, con calma s’alzò dalla carrozzina e prese posto accanto alla donna che aveva parlato.

«Forse qui sto più comodo», si giustificò lui.
«Ma così non potrà più vedere quello che c’è oltre la finestra», gli disse maliziosamente la donna.
«Giusta osservazione», approvò lui e le sorrise, sorridendo a se stesso del suo segreto espediente che tanto segreto non era più. Sporgendosi un poco verso di lei fece anche in tempo a vedere che la donna aveva scritto qualcosa sul suo telefono: “Che importava chi ci sarebbe stato, importava solo che ci fosse una finestra”.

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