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Ambliopìe

La poesia di Michela Duce Castellazzo è come una statua modellata a fatica dallo scultore a colpi di scalpello. Con le parole, infatti, essa scolpisce sul foglio bianco, nel dipanarsi dei versi, i significati nascosti della realtà di cui, giorno dopo giorno e spazio dopo spazio, ha visione ed esperienza: “[…] // Erano sterpi e sale / mantelli di luce spruzzata / statue di giganti tuffatori / pronti a difendere un deserto colmo di senso / ed eri tu a significarlo // […]”. E’ una poesia che si infila nella galleria buia della modernità, per ritrovarsi poi nell’ambiente primitivo dei quattro elementi che circondano, ancora e sommessamente, la vita dell’uomo e gli donano quella serenità che spesso perde nell’angosciante vivere i propri sentimenti in uno squilibrato e imbarazzante alternarsi di emozioni e sentimenti. Tali “gallerie”, che riconducono la persona a una innata integrità, sono come fughe di emergenza verso una zona sicura priva di schizofrenie dove si ritrova una composta serenità.
V’è, in tutta la raccolta, come un filo di disagio serpeggiante che rischia di far implodere, in ogni istante, la sua scrittura, che pare scorrere come sull’orlo di un burrone sempre pronto a inghiottirla; tale disagio sembra scaturire dalla contrapposizione della coscienza del poeta della sua necessità di scrivere (“Scrivere per portare alla luce / […] // Scrivere per urlare ragionatamente // […] // Scrivere come si abbaia alla luna // […] // Scrivere per durare.”), con la lucida comprensione che la scrittura è un dono che non può sottostare alla volontà dello scrivente: “Nessuno può dar voce / a queste parole logore. / la penna è già scarica. //[…]”. Quindi, a mio avviso, è un disagio che rende merito alla scrittura dell’autrice, la parola, infatti, appare, in questa raccolta, come una entità difficile da “imbrigliare” su un foglio al fine di obbligarla a esprimere ciò che l’anima percepisce e vive nell’ambiente della propria esistenza: “Come far emergere / le parole e i suoni / gli echi magici e le memorie sommerse / custoditi con tanta inutile gelosia? // […]”.

Una bella raccolta di poesie, scolpita e decisa sì, ma anche rivelatrice di quell’instabilità esistenziale per la quale il poeta è condannato a stare sempre in bilico su un non ben definito precipizio, ma con il coraggio della profonda consapevolezza di una propria vocazione all’incontro con la parola poetica. Ci piace pensare che il soggetto, nella poesia che segue, sia proprio la parola poetica: “Se t’incontrassi / nella nebbia / lungo il burrone / o in piena notte, / anche chiudendo gli occhi / non barcollerei.”. Molto bella, in questo senso, è anche la poesia che a tratti recita così: “Sull’orlo del margine / è più difficile stare / sempre al limite dell’indecisione / ma senza esitare. // […] // Cerco casa sull’orlo del margine / senza il nome sulla porta / né cancelli o recinti / in una valle aperta / dove poter sostare e ritornare / che chiara e nitida / si distingua nella nebbia / per tutti quelli che potranno arrivare.”

Infine dobbiamo ricordare che questa raccolta è pubblicata in una piccola collana di poesia delle Edizioni del Leone, curata dal poeta Paolo Ruffilli che riesce sempre ad avere occhi attenti per i più delicati soffi di poesia che altrimenti non avrebbero foglie da far frusciare onde farsi sentire.

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