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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Il dandismo di Marcel Proust

Argomento: Società

Saggio di Massimiliano Mocchia di Coggiola 

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 11/07/2008 01:15:28


IL DANDISMO DI MARCEL PROUST
Brani ed opinioni a dimostrazione di una tesi di Massimiliano Mocchia di Coggiola

Mi è stato cortesemente chiesto, di redarre un trattatello, o saggio che dir si voglia, per sostenere la tesi – non solo mia – secondo la quale Marcel Proust, il famoso autore della saga de “Alla ricerca del tempo perduto”, sia stato un autentico dandy.
Ora, a scanso d’equivoci, non intendo promettere nulla ch’io non possa mantenere; non vi prometterò né la brevità di questo trattato, che inizialmente aveva la pretesa d’esser leggero e poco impegnativo, e neanche prometterò di saper dimostrare fino in fondo la fondatezza di questa ‘tesi’ – che in realtà, nonostante la frivola apparenza che può indurre i meno curiosi od esperti ad un’ironico sorriso, si dimostrerebbe, o potrebbe dimostrarsi, fulcro di comprensione di personaggio che fu vero protagonista del proprio tempo. Ma, come dicevo, non ho la pretesa di dimostrare per certo alcunchè, non essendo io uno studioso né un esperto, ma nulla più che un semplice appassionato, che qui arrossirà, è vero, nel momento in cui vi dichiarerà d’aver letto per intero solo i primi due volumi (titolati “Dalla parte di Swann” e “All’ombra delle fanciulle in fiore”) della famosa saga della Recherche, e di questa nulla altro ancora, più per scarsità di tempo a disposizione che per altro. Ma su di essa, posso dire a ragione d’aver letto abbastanza, e, più di tutto, sull’autore stesso, giacchè era costui che veramente m’interessava, quale profondo analizzatore d’una intera epoca, nel momento più alto del suo dorato ed idillico decadimento. Quale attento osservatore, con una conoscienza della psicologia umana (e tutto questo senza Freud, pensate un po’!) sorprendente che gli consentiva di cogliere già addirittura in anticipo, e nei minimi dettagli, le diverse reazioni che un discorso, una parola, un’immagine od una lettura avrebbero provocato in ogni diverso soggetto umano, Marcel Proust potrebbe senza difficoltà, già solo per questo motivo, avvicinarsi di molto alla perlacea bolla irridescente che fa volteggiare i dandies sopra le teste dei comuni borghesi, col il naso per aria, le bocche spalancate come tanti ridicoli pesci, tutti intenti nello sforzo di distinguere i profili dei bizzarri personaggi che si librano indifferenti sopra le loro teste. Per comodità, o forse dovrei dire per pigrizia, citerò di seguito i testi dai quali estrapolerò frasi o a volte brani interi, per non dover compiere ogni volta la stessa azione dopo ogni citazione, come solitamente è usuale fare. Prima di tutto, sarà opportuno citare Giuseppe Scaraffia, quale eccellente autore di trattati sul dandismo, come “Il dizionario del dandy”, e, da poco pubblicato dalle eleganti edizioni Sellerio, il volumetto “Gli ultimi dandies”; probabilmente non citerò direttamente questi due testi, ma trovo utile menzionarli comunque dato l’argomento che ci interessa ora. Dello stesso autore ricorderò pure la biografia di Proust, intitolata per l’appunto “Marcel Proust”, la quale mi sarà, nonostante le apparenze, relativamente poco utile allo scopo, per condurvi nel ragionamento, o piuttosto nell’esposizione di fatti, che voglio portare avanti a favore della piccola tesi di cui all’inizio; in questo Scaraffia si limita infatti a raccontare in successione gli avvenimenti della vita del grande scrittore, ma fornisce pochi aneddoti che potrebbero risultare esserci veramente utili. Ma, alla fine del testo, lo stesso autore fornisce numerosi brani di libri od interviste di personaggi che conobbero Proust o gli furono sinceri amici, e questi si riveleranno più utili allo scopo. In particolare, un brano di Paul Morand, uno di Fernand Gregh, ed uno di Jacques Emile Blanche, il pittore che gli fece il famoso ritratto con la cravatta tortora, consigliatagli da Oscar Wilde in persona.
Ancora, la biografia di Robert de Montesquiou-Fezensac (da non confondesi col filosofo, che a differenza di questo si scrive “Montesquieu”), intimo amico di Proust, intitolata naturalmente “Robert de Montesquiou”, scritta con una verve ammirevole e con una approfonditissima conoscenza degli eventi (alcuni vissuti in prima persona) che non lascia adito a dubbi – dal fu Philippe Jullian, anche pittore e critico d’arte. Pure, il libro che raccomando a chiunque volesse saperne un po’ di più sull’argomento specifico, “George Brummel e il dandismo”, di Barbey d’Aurevilly, che conobbe Lord George Bryan ‘Beau’ Brummel in persona.
Non dimenticherò neanche “Oppio”, sorta di ‘diario di bordo’ del grande poeta, scrittore, pittore, cineasta e dandy Jean Cocteau, che scrisse quando si trovava in clinica di disintossicazione, e nel quale dedica un breve capitolo a Marcel Proust, che conobbe in prima persona, e del quale fu intimo amico per lunga data – fino al 1922, anno della morte di Marcel. Ancora di Cocteau, “La difficoltà di essere” potrà essere utile, così come i suoi “Ritratti ricordo”, quest’ultimo vero ricettacolo ironico di descrizioni di ambienti e situazioni fin-de-siecle.Ed è proprio dal rapporto tra Proust e quest’ultimo artista che vorrei iniziare; entrambi ammiratori di Robert de Montesquiou (del quale non mancherò di parlare in seguito), furono assai soggiogati dal fascino di quest’ultimo – come del resto lo fu quasi tutta la buona società francese della fine dell’Ottocento. Essi non mancavano mai di cenare insieme per poi recarsi, debitamente infagottato l’uno nella sua spessa pelliccia per timore d’aggravare l’onnipresente asma, ed austeramente incravattato l’altro, coi folti capelli neri e ricciuti stirati ed allisciati, che in seguito lascierà liberi di aggrovigliarsi alla sommità del cranio, con una attenta riga di lato. I due uomini andavano spesso a vedere gli allora famosi Balletti Russi, dei quali l’ideatore ed impresario era Serge de Diaghilev. Il primo ballerino attirava l’attenzione dei due amici, entrambi (qualità questa che si riscontra in molti dandy) attenti alla bellezza fisica come a quella artistica – ed entrambi non mancheranno mai di paragonare le due cose, di fonderle anzi, con il ritrovato amore per le sculture ed i dipinti antecendenti all’Ottocento, che va ad incidere nelle descrizioni dei personaggi (ad esempio ne “I ragazzi terribili” ed in moltissimi disegni di Cocteau), o dei volti, per esempio, da parte di Marcel: vedendo Odette, Swann non poteva far a meno di pensare ai disegni dell’immortale Botticelli, e così come nelle numerose desrizioni d’ambienti Proust riconosce la mano felice di qualche pittore od incisiore celebre all’epoca, come allo stesso modo Gabriele d’Annunzio, ne “Il Piacere”, avrà cura, nelle descrizioni di volti ed ambienti, di ricollegarsi a quadri impressionisti o rinascimentali (periodo che gl’era assai caro); e tutto questo, involotariamente, per ironico rispetto alla altrettanto ironica massima di Oscar Wilde: “Sono la Vita e la Natura che imitano l’Arte, e non il contrario”. Non a caso cito Cocteau, d’Annunzio e Wilde, tutti indiscutibilmente dandies, accanto a Proust, per far notare ancora una volta le analogie che intercorrono tra questi e l’autore in questione.
A cena poi Cocteau salterà sul tavolo del ristorante, in piedi, infervorato dalla foga del suo discorso in cui elogiava le capacità di Sergeij Nijnski, il primo ballerino dei Balletti Russi; Proust ricorda così l’episodio: “Per coprirmi di pelliccia e di morreo / senza dai larghi occhi versare nero inchiostro / come un elfo al soffitto, come uno sci sulla neve / Jean saltò sul tavolo come Nijnski”. Ma forse questo servirebbe più a dimostrare il dandismo di Cocteau che non di Proust, se non fosse per il fatto che quest’ultimo non si scandalizzò affatto dal salto sulla tavola dell’amico, ma anzi ne rimase affascinato ed ammirato, come infatti dimostra il fatto che detta poesia era scritta quale dedica su di un libro regalato allo stesso Cocteau; e così terminava la poesia: “Eravamo nel salone porporino di Laruc / il cui oro, di dubbio gusto, mai si velava. / La barba blandente ed irta di un dottore / ripeteva: la mia presenza è forse incongrua, / ma se uno restasse, io sarei quello, / intanto il mio cuore soccombeva ai colpi dell’Indiana.” Dove l’Indiana era l’aria alla moda, il ‘tormentone’, come oggi la si userebbe definire.
La poesia, basata di per sé su di un fatto che per i comuni borghesi non avrebbe nulla di poetico, sta a testimoniare ancora una volta, a parer mio, il carattere dandy di Marcel Proust, per cui era bello non ciò che piace, ma piuttosto ciò che stupisce (sempre, però, con buon gusto). Ricordo la massima di Baudelaire, altro noto dandy, che recita: “Il bello è sempre ciò che è bizzarro”. Allo stesso modo, la poesiola di Proust fa parte di quella voglia, che è propria d’ogni uomo catturato dalla Bellezza e dall’Arte, di far coincidere, e confondere, Arte e Vita, fino al punto, se possibile, d’eliminare totalmente la seconda. (Un dandy d’un racconto di Barbey d’Aurevilly dice: “Vivere? I nostri servi lo fanno per noi”, laddove l’apparente snobismo è potenzialmente infinitesimale, e presente solo a fini ironici, in confronto al concetto puramente ‘dandistico’ che esprime. Lord Brummel, il primo di tutti i dandies, alla domanda d’un conoscente: “Quale è il vostro lago preferito?” aveva rivolto insolentemente la domanda al proprio maggiordomo: “Charles, quale è il mio lago preferito?”, e quello: “Credo sia il lago di [e qui diede un nome], signore”. E Brummel, tornando a rivolgersi all’ospite, gli ripetè il nome del lago come se nulla fosse).
Questo è il periodo in cui Cocteau e Proust si spediscono lunghe lettere, delle quali, più che il contenuto, è assai più interessante il loro particolarissimo modo di porre l’indirizzo: “Fattorino, porta queste parole, e sbaràzzati di loro, / al boulevard Haussmann 102, da Marcel Proust. // 102, boulevard Haussmann, su! / Corri, fattorino, da Marcel Proust”. E Proust non mancava di rispondere ‘per le rime’, è il caso di dire; e Cocteau, soddisfatto, dichiara in “Oppio” che “la posta non se ne aveva a male. […] Proust rispondeva su buste ricoperte da zampe di mosca. In alessandrini descriveva rue d’Anjon, dal boulevard Haussmann fino al faubourg Saint-Honoré.” Da queste indicazioni in rima, si desumono ancora una volta due caratteri fondamentali del dandismo: prima, ancora una volta, il bisogno che ha ogni dandy di rendere l’Arte parte integrante della propria vita, anche nelle cose più futili – ma non per questo meno importanti – come l’affrancatura d’una lettera, azioni che hanno comunque, ed è il lato più evidente ed anche il secondo carattere d’ogni dandy, un chiaro intento ironizzante, demistificatorio nei confronti della figura del “poeta”, così come generalmente è visto dalla gente comune (Jacques Rigaut, un poco noto dandy dadaista, arriverà ad esasperare tale distinzione tra coloro che sono poeti davvero e coloro che non lo sono affatto – ed indicatore delle doti di quest’ultimi è l’alto apprezzamento che questi ottengono dal pubblico – scrivendo: “Voi siete tutti poeti ed io sono dalla parte della morte”); è quindi una ironia di fondo che pervade le azioni di Proust: demistificare, ironizzare bonariamente su tutto e tutti, ma senza cinismo. Il sense of humor, altro carattere essenziale del dandy, lo si riscontra facilmente in parecchi piccoli avvenimenti della vita di Marcel Proust, come ad esempio, sempre per rimanere nell’ambito Jean Cocteu-Marcel Proust, l’episodio che ci racconta ancora una volta lo stesso Cocteau. Egli, saputo che Marcel sarebbe dovuto venire a trovarlo verso le undici di sera, corse al suo appartamento arrivando però in ritardo di un’ora; scoprì che, nonstante il proprio ritardo, Proust l’attendeva nel corridoio che dava sulla porta dell’appartamento, seduto su di una cassapanca, benchè la porta di Cocteau fosse sempre socchiusa. “ ‘Marcel’ gridai, ‘perché non sei almeno entrato ad aspettarmi? Sai bene che la porta rimane sempre socchiusa’. ‘Caro Jean […], Napoleone ha fatto uccidere un uomo che l’aveva aspettato a casa sua. Certo, io non avrei letto che il Larousse, ma poteva esserci qualche lettera dimenticata, ecc…’ “.
Il desiderio di stupire, di affascinare ancor prima che piacere, è altro moto caratteristico del dandismo. La raffinatezza portata all’esasperazione, il gusto spiccato per una certa teatralità, portarono Proust, con l’aggravarsi delle sua malattia, a vivere chiuso tutto il giorno in casa, uscendo solo la notte, per recarsi al ristorante o a qualche ricevimento. Quale modo di vita migliore, per un dandy, l’uscire di casa solo di notte – giacchè Proust soffriva d’insonnia ( e a sentire lui era quasi un privilegio) – perennemente in frac? A tale proposito ricordo la sontuosa figura che faceva nel suo “santuario” al Ritz, in cui Proust, chiuso in una camera al pian terreno adiacente alla hall, al riparo dalla luce solare e quasi totalmente al buio, se non per qualche candela sparsa qua e là, che contribuiva a dare al tutto un aspetto misticheggiante e misterioso – ed egli, avvolto lo smoking nel suo mantello da sera foderato di seta bianca, sommerso da cuscini cremisi a ricami giapponesi, con incensi profumati agli angoli della stanza, attendeva i suoi visitatori (annunciati dal “signor Olivier, il quale rivestiva al Ritz un ruolo importante, era ad un tempo maggiordomo, e confidente da tragedia”. Quando Benoist-Méchin, che racconta la sua esperienza con Proust al Ritz, chiede al signor Olivier di vedere Proust, egli “gettò intorno a sé uno sguardo spaventato, come se temesse che qualcuno mi avesse udito pronunciare quel nome, e mi condusse nella camera occupata dall’autore di Swann”) facendoli accomodare praticamente al buio su una poltrona di fronte a lui; poi iniziava il suo monologo, che poteva durare un’ora o anche più, durante il quale l’ospite, storidito dagli incensi e dalla fioca luce, stupefatto dal viso bianco e dalla voce melodiosa dello scrittore, non osava aprire bocca (la desrcizione l’ho tratta dalla lunga testimonianza di Jacques Benoist-Méchin). Ebbene, non so voi, ma giudico questo atteggiamento tipico di tutti gli esteti decadenti fin-de-siecle, e in special modo di tutti i dandies dell’epoca. E se vi verranno in mente Wilde, o d’Annunzio, o Baudelaire, o Des Esseintes ebbene, sono tentato a credere che non si tratti di una pura coincidenza.
E non è detto che tale regola di vita gli fosse dettata esclusivamente dalla malattia, sulla quale per altro si possiedono in generale ben poche informazioni: era asma, certamente, ma a quale grado? Era davvero così grave dal costringerlo addirittura intere giornate settimane senza mai aprire i pesanti tendaggi che schermavano la luce solare, e proteggevano le delicate pupille dello scrittore? Sicuramente era molto grave, ma non sono da escludersi moti teatrali per rendersi più attraente e misterioso. Vi era certo una buona dose di nevrastenia, e lo stesso Proust se ne accorse, tentando più volte di farsi curare dai migliori specialisti dell’epoca, ma, ovviamente, senza risultati soddisfacenti; in fondo la psicanalisi, quale metodo di cura moderno, era ancora alle prime armi; e in ogni caso, guarire Proust sarebbe stato un po’ come dare delle pillole anti-depressive a Van Gogh, o dei giusti farmaci a Aubrey Beardsley: una perdita irreparabile.
Comunque sia, volente o nolente, Marcel Proust si era circondato da una luminosa aura di leggenda; egli appariva solo di notte, quando i ricevimenti erano quasi giunti al termine, ma grazie alle sua ottime capacità di conversatore (altro punto in comune con tutti i dandies della storia) che tutti gli amici ricordano affascinati, era in grado di farli continuare a volte sino all’alba. Paul Morand, un dandy romanziere, ricorda la visita che Proust gli fece, alle undici e mezza di sera, quando lui, ancora mezzo addormentato ed in pigiama, andava ad aprire la porta dell’appartamento e si ritrovava di fronte “un uomo pallidissimo, infagottato in un vecchio cappotto foderato di pelliccia, benchè la notte fosse tiepida; folti capelli neri, tagliati alla moda del 1905, sollevavano da dietro la sua bombetta grigia; la mano, guantata di capretto lucido tinta ardesia teneva un bastone da passeggio; le guance d’avorio opaco si scurivano verso il basso in un blu dolce, del colore della muffa del formaggio; i denti erano grandi e belli, i baffi mettevano in rilievo le labbra pesanti; le palpebre bistrate caricavano lo sguardo vellutato e profondo, velandone il magnetismo. Il visitatore mi disse con una voce cerimoniosa, tremula e artificialmente tagliente: Sono Marcel Proust”. Morand racconta che la visita si prolungò per un lunghissimo tempo, durante il quale Proust fu il solo a parlare, intervallano il suo discorso con lunghi intermezzi in cui si scusava per la tarda ora e quindi per il disturbo, poi elogiandolo in qualità di scrittore e d’uomo; Morand non aprì bocca: primo, perché si era sempre veduto incapace di approfittare delle pause degli interlocutori, secondo, perché si trovava di fronte, e per la prima volta, all’uomo che più ammirava in assoluto come scrittore il quale, “d’altra parte, non voleva essere interrotto”. Dalla attenta descrizione di Morand si notano diverse cose che ritengo utili al mio discorso: come ho già detto, l’ottima capacità di conversatore dello scrittore, nonché il suo gusto per la teatralità, l’artifizio, e la sorpresa; in tutte le visite notturne, o le rare uscite diurne, tutte accuratamente documentate da chi lo incontrò ma che per ragioni di tempo e voglia non citerò, si nota in lui un vivo desiderio di affascinare.
Anche, pure se qui non è troppo evidente, l’incredibile gentilezza di Proust, fatta di continue adulazioni, il più delle volte non meritate, cortesie infinite, tanto che Fernand Gregh e compagnia avevano coniato il verbo “proustificare”, per esprimere un atteggiamento un po’ troppo consapevole di cortesia con dei guazzabugli sentimentali che “la gente avrebbe definito delle ‘smancerie’ deliziose ed interminabili”. Lungi dall’essere uno stupido, Marcel sapeva bene che la gentilezza, oltre a venire prima di tutto in un rapporto amichevole, era anche ottimo modo per stupire gli altri. Non è quindi detto, infine, che tutte le lodi che tesseva le ritenesse poi seriamente degne di considerazione. Cito ancora Oscar Wilde: “L’unica maniera per farsi perdonare la troppa eleganza sta nell’essere sempre troppo eleganti”. Proust lodava per ingraziarsi le persone, poiché non amava avere nemici – ma, si badi bene, neanche amava passare per il giovane scrittore idolatra; una sera credette di sentire delle offese rivoltegli da un anziano signore che conversava a bassa voce, credendosi inascoltato, con un altro signore. Proust chiamò allora a sé un amico e gli disse d’andare a dire a quell’uomo di andarsi immediatamente a scusare e, se quello non avesse accettato, sarebbe passato alle vie di fatto (che allora significava il duello, con il fioretto o con la pistola); l’amico, preoccupato, giacchè conosceva le miserissime doti di combattente dello scrittore, andò a riferire intimorito quanto dettogli da Proust all’uomo che quest’ultimo aveva sentito rivolgergli delle gravi offese. Fortunatamente, questi non aveva alcuna intenzione d’offendere Marcel, che pure non conosceva, e i due divennero presto amici grazie al malinteso. L’episodio vuole dimostrare il carattere reale di Marcel Proust, dolce e cortese con tutti al primo approccio come all’ultimo, ma che poteva farsi stizzito od additittura furibono se urtato nel vivo, com’è d’altronde legittimo, oserei dire a questo punto, per ogni dandy.
Paul Morand descrive anche minuziosamente, da attento dandy qual era, l’abbigliamento notturno ‘informale’ dello scrittore. Ciò è tipico di tutti i dandies, da Stendhal ad Alberto Arbasino, il descrivere, con una attenta conoscenza dei termini esatti, l’abbigliamento dei loro personaggi maschili e femminili; e Proust non fa eccezione. Si sono fatti addirittura degli interi studi sull’evoluzione del costume basandosi solo sulle pagine della Recherche, e ciò non è poca cosa. Questo spiccato e sempre esercitato ‘senso dell’apparenza’, insomma un’ottimo occhio, i dandies lo hanno in comune coi pittori: Jacques Emile Blanche, ritrattista mondano del bel mondo parigino fin-de-siecle in perenne competizione con Boldini, ci descrive di seguito il guardaroba di Proust, che è certo il tratto più caratteristico di ogni dandy, l’abbigliamento raffinato e curatissimo, senza eccedere però nella volgarità del ‘troppo nuovo’, o ‘troppo perfetto’. Ricordo ancora, prima di iniziare a sparare a raffica citazioni, che le descrizioni così colpite dell’abbigliamento d’una persona erano cosa assai rara all’epoca: basti vedere due o tre fotografie del secolo scorso per notare che tutti, chi più chi meno, vestivano con una certa eleganza, e che quindi il notare una eleganza ancora più raffinata ed originale non esigeva solo, come ho detto, una memoria fotografica, ma anche un soggetto abbastanza affascinante in grado di colpirla: “[portava] delle cravatte di seta verde acqua annodate casualmente, i pantaloni a fisarmonica, la redingote ondeggiante, tra le mani una canna di giunco, dei guanti grigio perla a righe nere, sgualciti, spiegazzati, sporchi ed un cilindro incredibilmente irto; un’orchidea appassiva all’occhiello”. E non è questa l’unica descrizione stupita del modo di vestire dello scrittore; altri ne notano sempre la cravatta annodata casualmente, o lo sparato della camicia spiegazzato.
Dice Fernand Gregh che, dopo che gli amici gli facevano notare la sua bellezza da “principe orientale”, Marcel “indugiava allora a bighellonare voluttuosamente, nelle sere d’estate, quando andava ‘in società’, con un leggero soprabito semiaperto sullo sparato, un fiore all'’cchiello -–i fiori alla moda erano allora le camelie bianche – godeva della sua grazia adolescenziale riflessa negli occhi dei passanti, con un po’ di fatuità giovanile e una punta di quella ‘coscienza del male’ che aveva già a diciotto anni e che era la sua musa[…]”.
Edmond Jaloux ricorda che Proust: “Non faceva parte della gente comune: innanzitutto a causa del suo abbigliamento; […] il solino altissimo, leggermente svasato, che arrivava quasi al mento, e l’ampia cravatta alla marinara. Ho scritto una volta che camminava con una sorta di lentezza impacciata, o meglio non camminava, ma appariva.”
Gaston Gallimard fu colpito “dall’estrema tenerezza del suo sguardo, e ancora oggi rivedo come mi apparve, con un abito nero striminzito e male abbottonato, il lungo mantello foderato di velluto, l’alto colletto inamidato, il cappello di paglia avvizzito e troppo piccolo posato in avanti sulla fronte, le spalle alte, i capelli folti e ispidi, gli scarpini di vernice coperti di polvere. Quell’abbigliamento poteva sembrare ridicolo sotto quel sole: tuttavia avea una certa grazia commovente. Se ne sprigionava una sorta di eleganza e anche una grande indifferenza ad una grande eleganza”.
(Tengo ancora ad inserire qui di seguito un brano della testimonianza di Georges de Lauris, che dimostra quanto Marcel tenesse alle formalità, come certo è proprio d’ogni dandy, e viene fuori il suo pessimismo, testimoniato tra l’altro anche da molti dei suoi compagni di liceo (un’altra particolarità che andrebbe aggiunta alle altre per considerare lo scrittore un autentico dandy), ed il suo coraggio, che era più gusto del gioco (“…ma se ci è indifferente vincere o perdere?” chiedeva retoricamente Baudelaire; e Rigaut invece avvertiva che per il dandy “Testa o croce, non fa differenza; io gioco, è più saggio”): “Uno dei tratti di Marcel, che mi torna in mente mentre rivango questi ricordi, è il suo scarso attaccamento alla vita, almeno finchè non ebbe cominciato la sua opera. Il suo pessimismo era profondo. […] Era molto coraggioso. Gli succedeva persino di buttarsi nei pericoli, di cercare dei guai, come si diceva allora. Sono stato spesso testimone di queste ricerche. […] Gli piaceva ricevere. […] Nessuno disprezzava maggiormente la bohéme, la sfrontatezza, la familiarità invadente. Nelle cene che offirva in rue de Courcelles si mostrava attento al protocollo […]. [Quelle cene] hanno, nel nostro ricordo, il fascino di essere state già allora un po’ antiquate”).Come per l’abbigliamento, i gusti personali, anche i ricevimenti di Proust non mancavano di esalare quell’aria già antica eppure piacevole, quel gusto per il démodé (con anche una buona componente di disprezzo per le idee della società conteporanee) che hanno da sempre tutti i dandies, nessuno escluso: Boni de Castellane appariva sempre ai balli mascherati, di gran voga allora, in costume da gentiluomo del Settecento, periodo che era particolarmente caro anche a Aubrey Beardsley, come testimoniano i suoi numerosissimi disegni a soggetto. E Barbey d’Aurevilly non cessava di attenersi alla moda del 1830, sommerso il collo e i polsi da gale e pizzi. Majacovskji, il famoso poeta e dandy futurista, non abbandonava mai il bastone da passeggio, nenache per andare in spiaggia, come d’altra parte l’ultimo dei dandies moderni, lo scrittore americano Tom Wolfe, il quale ha trovato piacere nella vecchiaia solo perché ora è libero di portare il bastone da passeggio sempre con sè. “Io – scherzava Max Beerbohm, amico di Wilde – sono quello che i compositori di necrologi chiamano un interessante legame con il passato”. Solo il démodé è una nozione distintiva; il ‘nuovo per il nuovo’ disgusta il dandy, in cui una spilla o un fiore all’occhiello diventano nel suo abbigliamento “come una citazione in un saggio” (Scaraffia).
Ed ecco ciò che disse dell’abbigliamento di Proust l’amico Marcel Plantevigne: “E ad un tratto si vedeva spuntare a passi felpati dalla porta d’una camera del quanto piano del Grand-Hotel di Cabourg, un personaggio leggendario [sic!], tutto vestito di grigio perla, d’una bella vigogna morbida e spumosa […] con la bombetta sempre grigio perla, gli stivaletti abbottonati di vernice, lunghi e appuntiti, i guanti di pelle bianca a righe nere, come per salire nel landò d’una duchessa diretto ad un elegante garden-party, citando solo nomi di grandi dame o di grand signori, parlando, senza rivolgersi a nessuno in particolare, dell’ultimo ministro formato e della terza crociata, citando frasi di Clemenceau e San Bernardo, poiché diceva, sono vicinissimi e il tempo è una tale finzione. [Era] spinto dal fato a sopprimere ogni prosaicità […]. Perché era originariamente e naturalmente raffinato, tutto una sfumatura, e avrebbe dovuto trattenersi se avesse voluto esserlo meno”.
Ancora Blanche racconta: “[…] il suo dandismo era già ‘datato’, era il genere Batignolles del modello di Manet nel Père Lathuile, la trasadantezza studiata di George Moore [un dandy collezionista di quadri impressionisti], con un po’ dell’affettazione dello scolaro che tiene i guanti per nascondere le dita macchiate d’inchiostro e rosicchiate. […] Piegava il bastone di giunco, raccogliendo uno dei suoi guanti grigio perla che lasciava cadere infilandoli o togliendoli. Marcel vi pregava di mandargli l’esemplare mancante di quei guanti spaiati, dimenticati dappertutto, in una busta – in cambio di un altro paio o d’una mezza dozzina di paia offerti per dimostrarvi la sua riconoscenza per averlo trovato. Lo stesso per gli ombrelli, seminati nelle vetture di piazza e nelle anticamere: se gli restituivate quelli più malandati, su sua pressante preghiera, continuava ad usarli, ma ve ne comperava uno da Verdier. E i suoi cilindri diventavano degli istrici, dei terrier di Skye, a forza di essere spazzolati al contrario, strofinati sulle gonne e le pellicce nei landò e nei coupé”.
Ed ecco che ora Proust ci appare anche generossissimo, come ricorda ancora Jean Cocteau, nell’episodio in cui lo scrittore, a corto di denaro per aver elargito incredibili somme di denaro con mance ai camerieri del Ritz, si ritrovava colle tasche vuote di fronte al portiere dell’albergo, al quale disse: “Carissimo, avreste da prestarmi cinquanta franchi?”; e il portiere, rispondendo affermativamente, faceva per tirarli fuori quando Proust esclamava: “Potete tenerli. Del resto, erano per voi”. “Inutile aggiungere che – racconta Cocteau – il giorno dopo il portiere riceveva la somma triplicata”. Una volta tentò anche di regalare una grossa pietra preziosa a Cocteau, e questi, rifiutandola, non si immaginava certo delle conseguenze: la mattina dopo uno squadrone di sarti veniva a prendergli le misure per un mantello nuovo, regalo del signor Proust; ma Cocteau rifiutò pure questo dono, e Proust ne fu molto offeso.
Dalle precedenti descrizioni di Blanche appare chiaro come fosse impossibile non notare, tornando all’abbigliamento, questa “studiata trasadantezza”, propria dei primi dandies alla George Brummel, come in seguito lo sarà pure di James Joyce, di Dashiell Hammett e del già citato George Moore. Si pensi al fatto che i primi dandies facevano portare gli abiti e le scapre nuove prima dai loro domestici, per non mostrarsi con abiti troppo nuovi, e, a volte, ne strofinavano anche la stoffa con dei cocci di vetro!
Inequivocabile è pure l’orchidea all’occhiello, che in quegli anni solo i fedeli discepoli del conte Robert de Montesquiou si osavano portare, come in Inghilterra il garofano verde all’occhiello era segno distintivo per tutti i discepoli di Oscar Wilde.
E Marcel Proust, assieme al giovanissimo Jean Cocteau, era un fedelissimo del conte. Su questo personaggio bizzaro ci sarebbero da scrivere pagine e pagine intere, tanto il soggetto è inesauribile, come ebbe a dire lo stesso Proust; Jullian analizza molto bene sotto ogni aspetto il conte Montesquiou, e in particolar modo la sua “crociata” per la Bellezza, ch’egli non mancava mai di portare avanti con conferenze, articoli, saggi, ma anche feste, banchetti, ricevimenti, balli. Si ricorda in particolare una certa conferenza introduttiva ad una mostra di Gustave Moreau, pittore simbolista, in cui il conte sarebbe dovuto intervenire per parlare della pittura simbolista, argomento sul quale era molto esperto. Conoscendo la sua fama di dandy eccentrico, tutti se lo aspettavano apparire vestito di rosa e verde, mentre invece lo videro salire sul palco in redingote nera e cravatta scura, come un timido funzionario; e, sistemando i fogli del discorso, il conte esordì dicendo: “Proprio questo, era il sentimento che volevo suscitare in voi: l’attesa delusa del ridicolo”. Inutile dire che il giorno dopo tornava a cambiarsi d’abito anche tre volte al giorno, passando dalle finanziere verde bottiglia ai frac viola scuro.
Questa testimonianza è assai eloquente su quello che fu il conte per sé stesso, e pei suoi contemporanei: una guida estetica ed artistica, prima di tutto, in grado di affascinare, stupire, far ridere ed anche inquietare. Era lui a dettare il gusto, la moda. Venne preso come personaggio principale da Huysmans per il suo romanzo “Controcorrente”, e probabilmente da Oscar Wilde per “Il ritratto di Dorian Gray”, nonché dallo stesso Proust quale modello per il personaggio del Barone di Charlus nella Recherche. Purtroppo Proust, lo confesserà poi lui stesso – ma forse un po’ tardi – , caricherà il personaggio Charlus di vizi e atteggiamenti sordidi che il modello, Montesquiou, non avrebbe mai adottato o, almeno, mai ostentato. Perché questa improvvisa ‘rivalità’ tra Proust e il conte? Proprio Proust che per anni ne era stato amico fedele, discepolo ed imitatore; quasi segretario ed in alcuni momenti che allo scrittore non farebbe piacere ricordare, il suo fedele schiavo. Proust scrisse sul conte decine di articoli in cui ne lodava il buon gusto (assai bizzarro, però), descriveva i suoi fantastici ricevimenti ai quali interveniva tutto il bel mondo parigino, e osava a malapena citarsi tra gli invitati.
Tutti i dandies passarono, nella loro vita, un breve periodo giovanile di imitazione, si può dire, in cui “l’originale” era spesso un dandy anziano, se non addirittura già da tempo defunto, del quale riprendevano gli atteggiamenti, i gusti, le battute sentite o lette. Ebbene, Proust, come altri suoi giovani contemporanei, scelse quale modello per sé stesso, il conte de Montesquiou. Ed ora verrebbe spontaneo affermare che Marcel abbandonò il proprio modello scrivendo la Recherche, ed in particolare “Sodoma e Gomorra”, in cui il conte è totalmente denigrato, diventa un antieroe, uno scapestrato vizioso, in certi momenti addirittura un po’ volgare. Ma abbandonando il modello, Proust non abbandonò affatto il proprio dandismo. Vi siete chiesti come mai, tra tutti i discepoli del conte, solo Cocteau e Proust sono ancora oggi nomi d’una certa notorietà? Non perché fossero, in gioventù, stati soggiogati dal fascino del conte, ma perché in seguito seppero costruirsi un dandismo proprio, personale. Ed è questo il vero dandismo, che ripugna poi l’imitatore come un fastidioso insetto. Dice Wilde in “Decadenza della menzogna”: “L’imitazione è l’insulto più sincero”. Non per rispetto a questa massima, certamente sconosciuta a Marcel Proust, egli si staccò da Montesquiou per potersi finalmente inebriare d’una originalità propria, non già scimmiottata, come quella che continuavano a praticare le decine di discepoli del conte, che oggi sono del tutto sconosciuti. Come Proust, anche Cocteau, ma ben più tardi dell’amico, finì per negare l’estetismo decadente di Montesquiou, per aderire ad un dandismo più sportivo e apparentemente noncurante.Ma, come dice giustamente Scaraffia, “Proust fu farfalla, prima che crisalide”; coll’aggravarsi della malattia, e della stanchezza, Proust si ritirò definitivamente dal mondo, e, chiuso in casa come un uno scrigno incrostato di preziosi dall’interno, iniziò a scrivere quella titanica opera che è oggi considerata capolavoro della letteratura francese del periodo, e dalla quale amerei estrapolare un breve brano, ancora a dimostrazione della mia tesi; il giovane Narratore sta conversando con il signor di Norpois, il quale è d’idee esattamente opposte a quelle del protagonista. Alla dichiarazione d’ammirazione da parte del Narratore per lo scrittore Bergotte (dallo stile evidentemente decadente, come verrà fuori in seguito nella citazione), il signor di Norpois risponde con parole di sdegno, che esprimono l’esatto contrario del pensiero di Marcel Proust nei confronti delle letteratura decadente, estetizzante propria di tutti i dandies e del primo decadente per eccellenza, Joris-Karl Huysmans:
Parla la madre del Narratore: “ Mio figlio non lo conosce [Berogotte. Il Narratore ne legge soltanto i libri senza averlo mai incontrato di persona], ma lo ammira molto, disse mia madre.
– Mio Dio! Disse il signor di Norpois (ispirandomi sulla mia intelligienza dubbi più gravi di quelli che mi tormentavano di solito, quando vidi che ciò che io mettevo mille e mille volte sopra me stesso, ciò che c’era per me di più elevato al mondo, era per lui all’ultimo gradino nella scala dell’ammirazione) io non condivido codesto modo di vedere. Bergotte è quello che io chiamo un suonatore di flauto; bisogna riconoscere del resto che lo suona piacevolmente, anche se non molto manierismo ed affettazione. Ma infine è soltanto questo, e non è granchè. Mai che si trovi nelle sue opere senza muscoli quel che si potrebbe definire l’ossatura. Non c’è azione, o pochissima, ma soprattutto non c’è nerbo. I suoi libri difettano alla base, o piuttosto non hanno nessuna base. [egli si perde] in discussioni oziose e bizantine su pregi puramente formali. […] so che è bestemmiare contro la Sacrosanta Scuola di quella che quei signori chiamano l’Arte per l’Arte, ma nella nostra epoca ci sono compiti più urgenti che disporre delle parole in maniera armoniosa. [è una maniera] molto leziosa, molto gracile, e ben poco virile.”
Commentando poi una pagina che il giovane Narratore gli ha mostrato poch’anzi: “[…] ma c’è già lo stesso difetto, quel controsenso di allineare le parole molto sonore, curandosi solo dopo della sotanza. […] Non so se sia Loménie o Sainte-Beuve che racconta che Vigny disgustava per lo stesso difetto.”
Ora, lo stile, il modo di scrivere di tutti i dandies della storia è stato così come lo descrive il signor di Norpois: musicale, arificioso, attento più al suono che alla sostanza. E qui Proust si dichiara apertamente ammiratore di quella scuola, fondata direttamente da Oscar Wilde ed ancor prima da Walter Pater dell’Arte per l’Arte, o Art for Art’sake, che, più che un modo di scrivere, è davvero tutta una regola di vita: è il dandismo applicato alla scrittura, se così si può dire. Colgo ancora l’allusione ad Alfred de Vigny, il dandy post-romantico per eccellenza, conteporaneo di Baudelaire, che “portava il mantello per nascondere le sue ali” (Paul de Molènes).
E con questo credo che possa bastare.Per concludere, un’ammonimento: mi si potrà contestare che tutti i dati che ho presentato qui sopra possano tranquillamente non essere necessariamente caratteristici di un dandy, giacchè sono riscontrabili pure in altri scrittori o artisti del periodo; ed infatti è così. Ma tengo a precisare che tutte le caratteristiche elencate, con i loro particolari brani che le desrivono, sono caratteristiche di un dandy solo se si riscontrano tutte assieme in una sola anima. Giustamente Stefano Lanuzza assserisce, lapidario: “Non esiste una comunità dandy ma, al massimo, un'intersezione di pensieri e comportamenti dai tratti dandistici, un volante incrocio di identità uniche”.Io ringrazio il lettore che è riuscito a giungere incolume fino a questo punto finale; e ringrazio in special modo Marcel Proust, Oscar Wilde, Jaean Cocteau, Robert de Montesquiou, Gabriele d’Annunzio, Barbey d’Aurevilly, Charles Baudelaire, Jacques Rigaut, Alfred de Vigny, e George Brummel.

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